La mia carriera di giornalista italiano in America è iniziata piú di vent'anni fa. All’epoca scrivevo per lo piú di sport e quello che inviavo in Italia, erano per lo più interviste a questo o quell’atleta e cronache di eventi sportivi.
Ben presto, a furia di annotare risultati, notai una cosa strana: negli sport americani non esiste il pareggio! Negli incontri di baseball, football e basket infatti, è rarissimo che il match termini in parità. L’unica disciplina sportiva seguita negli Usa che rappresenti una parziale eccezione a questa regola è l’hockey, che infatti è di origine canadese.
Proprio come i Romani con i giochi gladiatorii, gli americani nello sport accettano un unico responso, quello che sancisce il trionfo di un solo vincitore. In ogni partita o competizione, che sia essa individuale o di squadra, deve sempre esserci un vincente e un perdente.
Nel 1994 il campionato del mondo di calcio organizzato negli Stati Uniti fu un buon successo, considerando che si svolgeva per la prima volta in un paese privo di una forte tradizione calcistica. Quello che rovinò la festa agli organizzatori fu quel pareggio a reti bianche che Italia e Brasile trascinarono per tutta la durata della finale e che finì con lo spazientire il pubblico americano.
Anche se a vincere è un’intera squadra, c’è sempre un “eroe” che si distingue dagli altri, come dimostra il fatto che, al termine di ogni partita che si rispetti, la stampa sportiva procede all’incoronazione dell’Mvp: il Most Valuable Player.
Nello stesso tempo, uno degli insulti più in uso qui in America è “loser”, l’essere un “perdente” nella gara della vita. Un termine derogatorio che non ha corrispettivi in italiano ma che si adatta perfettamente ad una cultura che, come ho scritto in un precedente articolo, non conosce vie di mezzo ma è caratterizzata da una netta separazione tra “bene” e “male”, bianco e nero, vincitori e vinti.
Ogni vincitore, ovviamente, è anche un “Numero uno” e negli Usa, i due concetti vanno strettamente a braccetto. Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, cioé dalla iniziale affermazione degli Stati Uniti sulla scena internazionale e, ancora di più, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’America ama considerare sè stessa come il Paese Numero Uno del mondo, un atteggiamento che puzza un po' di eurocentrismo, la vecchia tendenza antropologica secondo la quale i popoli occidentali valutavano il resto del mondo usando paramentri propri alla loro cultura.
Certo se si compilasse una classifica mondiale dei Paesi più ricchi o più tecnologicamente avanzati, gli Stati Uniti sarebbero certamente al primo posto. Ma se si cambiassero i parametri di giudizio di questa stessa classifica (pensiamo ad esempio ai livelli di giustizia sociale; all'alfabetizzazione; alle aspettative di vita; all'armonizzazione del proprio sviluppo con l'ecosistema…) ecco che l'America e gli americani perderebbero il tanto agognato primo posto.
Insomma, questa tendenza degli Stati Uniti a considerarsi la nazione “numero uno” del pianeta, a guardarla da vicino, appare come una generalizzazione molto semplicistica e, in fin dei conti, un po' puerile.
Il culto americano del vincitore e del “primo della classe” tuttavia, ha anche dei risvolti positivi perchè proprio grazie alla carica e alla motivazione della vittoria finale, gli americani affrontano con estrema determinazione le loro sfide quotidiane. Nella vita privata come in quella professionale, spesso riescono ad ingranare una marcia in più e ad arrivare più lontano, perchè per loro c’è un solo risultato socialmente e culturalmente accettabile: la vittoria.
Per vincere infine, occorre perseverare e chi non lo fa è un “loser” o un “quitter”, uno che rinuncia, un epiteto forse anche peggiore perchè implica il fatto di non aver neanche tentato.
Senza arrivare agli eccessi di un trionfalismo esagerato o delle “autoincoronazioni” di una intera nazione, sarebbe molto positivo, a mio avviso, se gli italiani riuscissero a prendere in prestito un’atteggiamento simile a quello che spinge continuamente gli americani a tentare.
Arrendendosi ad una sorta di rassegnazione che é endemica nella cultura nazionale italiana, in molti, soprattutto tra i giovani e specialmente nel Meridione, finiscono col rinunciare in partenza convinti dell’inesorabilità di una sconfitta che diventa reale solo se la si dà per scontata sin dall’inizio.
In America invece, tutti si considerano in prima persona “potenziali vincitori” un atteggiamento che magari potrá essere puerile e, in molti casi, arrogante ma che mi pare di gran lunga preferibile.
Ma soprattutto, tra le due alternative, é meglio avere a che fare con uno stuolo di “possibili eroi”, anzichè con un branco di “quitters” propensi a sacrificare la propria identitá per un’identificazione collettiva e passiva con un solo “leader supremo”, che magari faccia capolino da un balcone o da uno schermo televisivo.