Nel libro “La mafia non lascia tempo” di Anna Vinci (Rizzoli, luglio 2013 – 208 pagg. € 15,00) la storia di Gaspare Mutolo si legge come un romanzo, che romanzo non è: veloce, vibrante e allo stesso tempo complesso come i fatti che lo riguardano. Sin dalle prime righe sulla sua “educazione” criminale (da ruba-macchine a mafioso alle dipendenze del capo-mandamento Rosario Riccobono) arrivando alla dissociazione nel 1992, è istintivo vedere in questo percorso a ostacoli verso la gerarchia criminale organizzata la storia di una formazione al contrario.
E’ appunto dal prologo che parte tutto “Mi dissocio formalmente dall’organizzazione Cosa Nostra, alla quale io sono appartenuto (…)” mentre il racconto personale all’interno della compagine mafiosa, da soldato di un certo rilievo, prende corpo passando per i traffici da lui gestiti, gli ammazzamenti, il contatto con un presunto agente segreto che poi tentò di depistare un’indagine di Falcone, la rete dei contatti acquisiti fuori e dentro il carcere, la strategia con la quale immancabilmente uomini “insospettabili” vengono a patti con la mafia: un sistema a sé che allo stesso tempo conferma l’affaire più alto della trattativa stato-mafia il cui processo è tutt’ora in corso (qualche editorialista, e non sono pochi, ancora la definisce presunta, fatto anomalo di per sé poiché al di là degli eventi ormai storici confermati dentro e fuori le inchieste giudiziarie, ci sono sempre le motivazioni della sentenza di Firenze rese pubbliche a marzo 2012 che fanno fede : «Venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des». «L'iniziativa che» – precisa la motivazione alla sentenza – «fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia» ) La sentenza ha riconosciuto colpevole il boss Francesco Tagliavia.
Vi è una parte del racconto della dissociazione che lo riguarda e che è solo sfiorata dal libro nel capitolo “La Dia è nata con me” che abbiamo approfondito direttamente con Mutolo: l’esperienza negli Stati Uniti come testimone nel processo contro John Gambino, famiglia quella dei Gambino la cui storia è legata a quella degli altri “scappati”, Spatola e Inzerillo.
E’ qui che Mutolo riapre il cassetto dei ricordi fondanti della sua dissociazione:<< Nel 1981 (da poco morti a poca distanza l’uno dall’altro Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo) l’allora capo della mafia italo americana, Paul Castellano, manda in avanscoperta a Palermo Gambino per capire come potevano muoversi le famiglie “incriminate” verso i corleonesi. Fa da tramite un mafioso del luogo Rosario Savio, poco noto in quel tempo e lo fa incontrare con Rosario Riccobono, capo mandamento della zona Partanna-Mondello e quindi mio capo>>. <> – continua Mutolo – <>>. Mutolo da questo flash back ritorna poi ai giorni della sua ufficiale collaborazione nata a cavallo tra il 1991 e il 1992 e all’incontro con lo stesso Gambino l’anno successivo, mentre il giudice sferzante gli chiedeva prova di quello che sapeva sul conto dell’imputato (la storia dei Gambino è legata a doppio filo con il sequestro di Michele Sindona altro ulteriore tassello di questa storia lunga quarant’anni e mai terminata dei rapporti che legano da sempre cosa nostra americana con quella italiana). <>. Il sistema giudiziario americano – prosegue – soprattutto in questi casi è molto differente da quello italiano e il giudice non ha avuto dubbi soprattutto dopo la reazione in aula avuta dal Gambino al cospetto del suo avvocato a cui ordinò di rompere gli occhiali che avevo usato – come richiesto dalla Corte – per il riconoscimento.>> Mutolo non resta protetto negli Usa come gli fu proposto a suo tempo da Gianni De Gennaro, vuole tornare nel suo Paese a combattere quella mafia che non riconosceva più e dalla quale si è sempre più affrancato, così fa sin dal suo primo incontro con Falcone, e subito dopo con Paolo Borsellino (verbalizzati e non verbalizzati in un primo tempo, a seconda dell’importanza delle rivelazioni da fare, anche in questo Borsellino seguiva un metodo specifico: prima i fatti riguardanti i vari mandamenti, i reati nei quali il collaboratore è coinvolto via via fino alle interessenze politiche alle complicità – da un’intervista precedente dell’autrice dell’articolo a Pippo Giordano ex ispettore Dia operativo al fianco ai giudici Falcone e Borsellino in quegli anni).
Colpisce il suo racconto per la precisione che rimanda alla parte giudiziaria, un supporto a suffragio della sua testimonianza, una conditio di cui egli stesso forse non può più fare a meno, come un metodo appreso affianco degli inquirenti in questi anni. La stessa precisione mostrata nell’ultima intervista il 29 luglio a viso coperto su RaiUno nel programma “Unomattina” per la presentazione del libro nella quale Mutolo commenta l’assoluzione di Mario Mori per il favoreggiamento alla latitanza di Provenzano così: <>. Presenti in trasmissione anche il giornalista Giovanni Fasanella autore insieme a Mori del libro “Ad Alto Rischio” (Mondadori), Anna Vinci e l’ex ministro Scotti – esautorato in quegli anni tesissimi dalla carica al Viminale per essere sostituito da Nicola Mancino (oggi accusato di falsa testimonianza nel processo Stato Mafia). Una precisione che molti giornalisti dovrebbero invidiargli.
S.Z. Ritorno al suo penultimo incontro con Paolo Borsellino avvenuto il 1° luglio, il giorno in cui come ha raccontato già, nel corso del colloquio fu chiamato dal Viminale. Lei conferma che Borsellino le fece proprio il nome di Nicola Mancino?
G.M. Borsellino mi disse: ”Mi ha chiamato il ministro”. Nella deposizione Mutolo riportò anche gli altri due nomi riferiti a quell’incontro, mentre aspettava negli uffici che Borsellino tornasse per proseguire il colloquio, quelli dell’ex capo della Polizia Parisi e Bruno Contrada, che ha oggi scontato la sua pena.
S. Z. Lei parla nel libro del famoso papello: secondo lei è plausibile che Mancino avesse un ruolo da mediatore come qualche collaboratore ha già delineato?
G. M. In quel periodo sapevo da Falcone che un paio dii ministri, in particolare Martelli e Scotti, avevano veramente intenzione di combattere la mafia. Si erano già affrontati dei provvedimenti importanti l’indirizzo approntato era quello giusto, quando in modo repentino e senza troppe motivazioni c’è stato quel cambio fra Scotti e Mancino certo ne ho tratto delle mie conclusioni.
S.Z. Secondo lei Borsellino sapeva della trattativa in corso tra pezzi dello Stato e Cosa nostra?
G.M. Non ne abbiamo mai parlato in modo diretto ma era evidente che lo sapesse da come ormai agiva e poi in quegli uffici, consegnati ai pochi metri quadri in cui avvenivano i nostri incontri, io sentivo alcuni passaggi di conversazioni anche toni e parole forti che potevano far intendere cosa stava succedendo e il clima che tutti stavamo vivendo. Certo che Borsellino sapeva.
Se il tempo passato accanto a Riina non ha toccato tanto profondamente la coscienza di un uomo che nonostante tutto fa un salto al di là della barricata e collabora in modo cosi preciso e serio con lo Stato allora viene spontaneo pensare che sia stato lui a non aver lasciato altro tempo alla Mafia e non viceversa. Per questo il lavoro svolto sui collaboratori e l’importanza che il giudice Falcone gli ha sempre dato, nel loro ruolo a sostegno della lotta contro la criminalità organizzata, è fondamentale. La mafia è un fenomeno umano, diceva il giudice Falcone, e quindi come tale può cessare, aveva ragione. Certo ci vuole la piena volontà dello Stato.
Un ringraziamento speciale ad Anna Vinci.