Nei giorni scorsi, il governo israeliano si era vantato sui media dei successi dell’intensa campagna di vaccinazione contro il COVID-19 e per questo aveva annunciato la fine di tutte le restrizioni. Proprio nel giorno in cui hotel e stabilimenti turistici stavano riaprendo, dopo mesi di chiusura a causa delle restrizioni, il governo ha dovuto fare marcia indietro e ha dichiarato il divieto di balneazione, di praticare sport marittimi e di campeggiare su 170 km di litorale, fino a nuovo ordine a causa di un gigantesco versamento di petrolio. L’ “incidente” (se di incidente si può ancora parlare visto il ripetersi dei casi) si è verificato in mare aperto al largo delle coste di Israele.
Pare che a causare quella che alcuni hanno definito la peggiore catastrofe ambientale degli ultimi dieci anni sia stata la tempesta dello scorso 11 febbraio. Il petrolio è fuoriuscito da una nave che viaggiava a circa 50 km (30 miglia) dalla costa israeliana. Dalla nave sarebbero state riversate in mare decine di tonnellate di greggio che sono finite su un tratto di mare troppo ampio per essere controllato: hanno interessato circa il 40 per cento dell’intera costa israeliana.
“Circa 4.000 volontari hanno preso parte allo sforzo di pulizia, dopo essere stati formati attraverso il sistema che abbiamo istituito insieme all’organizzazione no profit EcoOcean. Tutti hanno agito in conformità con le nostre linee guida. Sia il Ministero che altri enti coinvolti hanno invitato i volontari ad agire esclusivamente in coordinamento con noi in tre modi: attraverso le autorità locali, attraverso l’Autorità per la natura e i parchi, o attraverso l’EcoOcean – in collaborazione con il MoEP. So che tutti vogliono aiutare, ma il catrame è una sostanza pericolosa!” ha dichiarato la Ministra per per la Protezione dell’Ambiente, Gila Gamliel. Oltre alle migliaia di volontari, sono moltissimi i militari al lavoro per cercare di ridurre i danni e proteggere la costa dal petrolio: sono già stati soccorsi animali, tra cui tartarughe e uccelli, ricoperti di petrolio. Nei giorni scorsi, una balenottera comune lunga 17 metri si è spiaggiata morta (al suo interno sono è stato rinvenuto un “liquido nero derivato dal petrolio”).
La situazione, però, potrebbe essere più grave di quanto appare: parte del catrame potrebbe essere penetrato sotto gli scogli, danneggiando l’ecosistema. Per Israele, i danni potrebbero essere ben più gravi di quanto ci si aspetta: circa il 55% dell’acqua potabile distribuita nel paese proviene dagli impianti di desalinizzazione.
Sono ancora in corso indagini per identificare la nave che, stando ai primi rilevamenti satellitari, viaggiava in acque internazionali: il governo stata valutando la possibilità di intraprendere un’azione legale per ottenere il risarcimento dei danni che certamente ammontano a milioni di dollari. La Ministra Gila Gamliel ha parlato di nove navi tra quelle potenzialmente responsabili, ma si è preoccupato di dichiarare che il suo paese non avrebbe potuto in alcun modo prevedere quanto è accaduto.

Secondo la Israel nature and parks authority, si tratta del peggior disastro ambientale della storia di Israele. Si teme che ci vorranno mesi o addirittura anni per ripulire completamente la costa. Intanto alla popolazione è stata vietata la balneazione fino a nuovo ordine e dal confine a nord col Libano fino a sud con la striscia di Gaza è stato posto il divieto di attività sportiva e accampamento.
Proprio domenica scorsa, il presidente Netanyahu aveva incontrato il ministro egiziano del Petrolio e delle Risorse minerarie, Tarek El Molla. Tra i temi dei colloqui l’impegno comune perché ogni nave venga alimentata “a gas naturale invece di inquinare con il carburante”. “Penso che se diversi paesi si uniscono, nel giro di pochi anni possiamo apportare un grande cambiamento, in modo che il mare, il paese e le spiagge siano puliti”.
Il problema non riguarda solo il carburante delle navi: riguarda anche l’estrazione e il trasporto via mare del petrolio che a dispetto dei disastri già avvenuti e delle belle promesse ambientaliste continua imperterrito.
Specie in un sistema, come il Mar Mediterraneo, chiuso e, quindi, maggiormente esposto ai rischi legati ad uno sversamento come che si è appena verificato. Il Mar Mediterraneo è il mare più inquinato del mondo dal petrolio: la causa è l’alto traffico di navi cisterna e di imbarcazioni commerciali che causano piccoli e grandi sversamenti. Ma anche l’ostinarsi a voler trivellare il Mar Mediterraneo in cerca di combustibili fossili (che fine ha fatto il New Green Deal tanto caro alla Commissione Europea? Dov’è la piccola Greta?). I dati riportati da Legambiente parlano di una situazione già critica: con ben 38 milligrammi di idrocarburi per ogni metro cubo d’acqua il Mar Mediterraneo è il mare più inquinato da petrolio del pianeta. Nonostante questi problemi, ad agosto scorso, la Turchia ha già riaperto le trivellazioni nel Mar Mediterraneo orientale. Il rischio è che possano verificarsi casi come quello che si è verificato nell’alto Adriatico poche settimane fa: il 5 Dicembre 2020 è affondata la piattaforma Ivana D. La piattaforma improvvisamente scomparsa – presumibilmente divelta dal forte vento – è stata poi ritrovata, pochi giorni dopo l’affondamento, sul fondo del Mare Adriatico (a poco più di 40 metri di profondità).
Il nuovo governo Draghi non ha ancora preso una posizione chiara in materia. Il decreto Mille proroghe ha, di fatto, solo rimandato a Settembre la scadenza. Ma senza un intervento deciso da parte del nuovo premier, a breve riprenderanno le trivellazioni petrolifere nel mare cristallino intorno alla Sicilia.
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