A Madrid, in Spagna, i lavori della COP25 sono ormai alle battute finali. Un finale che sembra arrancare più di quello delle edizioni precedenti (nonostante l’arrivo della onnipresente Greta). Sono lontani i giorni della COP21, con tutti (ma proprio tutti) i leader mondiali, sorridenti e felici delle loro promesse di salvare il pianeta da un cambiamento irreversibile. Ora oltre alle associazioni ambientaliste, ci sono solo poche decine di delegati costretti a ripetere buoni propositi nei quali è difficile credere: la favola di un mondo dove i paesi maggiori responsabili dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici fanno marcia indietro non regge al confronto con i dati scientifici.
Neanche la traversata di Greta Thunberg (di ritorno dagli USA), salpata in barca a vela dal fiume Tago e approdata a Lisbona (diretta a Madrid), per parlare di nuovo di ambiente, è riuscita a salvare la COP25 dal lento naufragio. E la decisione della rivista TIME di sceglierla come personaggio dell’anno è bastata a mala pena a non far parlare del suo scontro a distanza con il presidente del Brasile, Bolsonaro: appena giunta a Madrid, la Thunberg, invece di parlare dei milioni di morti per l’inquinamento causato dalle multinazionali, ha preferito denunciare l’assassinio di due indigeni “per aver cercato di proteggere la foresta dalla deforestazione illegale”, come ha twittato domenica. Prevedibile la risposta del presidente del Brasile (dove avrebbe dovuto essere ospitata la COP25), che, davanti ai giornalisti, ha dichiarato: “È incredibile quanto spazio la stampa offra questo tipo di pirralha” una parola portoghese che traduce liberamente come “marmocchio” o “parassita”…
Per il resto, alla COP25 sono poche le novità. Da una parte, le solite promesse dei (pochi) leader mondiali presenti, farcite di dichiarazioni mediatiche e cene di gala. Dall’altra, gli appelli accorati dei responsabili delle Nazioni Unite (a cominciare da quelli del Segretario Generale A. Guterres) e dei rappresentanti delle associazioni ambientaliste.
Tra i due estremi, la convinzione sempre più diffusa che tutto questo non servirà a salvare il pianeta.
Proclami, riunioni mensili e decine di milioni spesi in meeting inutili, non sono bastati a non far aumentare le emissioni di CO2: a confermarlo è il rapporto annuale del Global Carbon Project che parla di 36,8 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2 alla fine del 2019, un livello mai raggiunto nella storia. Dato confermato anche dall’Organizzazione meteorologica mondiale, OMM, che ha comunicato che le concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera hanno raggiunto il livello record di 407,8 parti per milione nel 2018 e continuano ad aumentare.
Molte le conseguenze. A cominciare dall’innalzamento del livello del mare che sta accelerando a causa dello scioglimento delle calotte glaciali in Groenlandia e Antartide. E dato che gli oceani fungono da “cuscinetto”, assorbendo calore e anidride carbonica, anche la temperatura dei mari ha raggiunto livelli record. A cambiare è anche il pH dell’acqua di mare del 26 percento più acida rispetto all’inizio dell’era industriale. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti (anche di chi finge di non vederli). “Su base giornaliera, gli impatti dei cambiamenti climatici si manifestano in condizioni meteorologiche estreme e anormali”. I paesi che vanno dalle Bahamas al Giappone al Mozambico hanno subito l’effetto di devastanti cicloni tropicali. Incendi violenti attraversarono l’Artico e l’Australia “, ha dichiarato il segretario generale dell’OMM Petteri Taalas.
Tutto questo, però, non è bastato a convincere i governi a mantenere la promessa, fatte a Parigi, di rivedere ogni cinque anni i limiti delle emissioni, i cosiddetti NDC, per adattarli alle necessità. Anzi, in molti casi, sembra che si stia andando nella direzione opposta. Già detto degli USA, anche la Cina ha smesso di fare promesse sull’ambiente. E il Giappone “ha perfino affermato di non voler rivedere i propri NDC” come ha denunciato Lucile Dufour, del Climate Action Network, rete di associazioni ambientaliste che partecipa alla COP25. Anche la “verde” Europa difficilmente potrà mantenere la promessa fatta con la risoluzione appena approvata dall’Europarlamento (con 429 voti a favore, 225 contrari e 19 astensioni), che parla di “emergenza climatica e ambientale in Europa” chiedendo alla Commissione Europea di garantire che tutte le proposte legislative e di bilancio pertinenti siano pienamente in linea con l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C. Impegno questo che ha portato la nuova presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ad includere nel Green deal europeo la riduzione del 55% delle emissioni di gas serra entro il 2030 (invece dell’attuale 40%). Basti pensare che l’Italia, tra i paesi più “verdi” dell’UE, continua a perdere posizioni nella classifica Climate change performance index (Ccpi), realizzata da Germanwatch, Climate action network (Can) e dal New climate institute, in collaborazione con Legambiente. Eppure solo due anni fa, ricopriva il il sedicesimo posto in questa classifica e l’anno scorso era 23sima. Quest’anno è finita al 26esimo posto.
La prova definitiva che, a fronte di tante belle promesse, nessuno, neanche nella “verde” Europa, ha veramente a cuore l’ambiente, è l’ETS, l’Emissions Trading System, il sistema per lo “scambio di emissioni”. Un sistema “diabolico” che, dato un livello massimo di emissioni a livello mondiale da non superare, consentirebbe lo scambio del “diritto ad inquinare” tra stati e aziende. In altre parole, consente ai paesi meno sviluppati e con minori emissioni di vendere le proprie quote ad imprese o stati che inquinano oltre i limiti consentiti. Nonostante le belle parole scritte e pronunciate nei loro discorsi, nonostante i titoli pieni di “verde” (torna alla mente il Green deal europeo…), i leader mondiali non sono mai riusciti a raggiungere un accordo definitivo sull’articolo 6 dell’Accordo di Parigi (che prevede la riforma dell’ETS). Né alla Cop22 di Marrakech nè alla Cop23 di Bonn né alla Cop24 di Katowice. Ancora oggi, dopo tanti anni, non esiste un vero e proprio regolamento. E chi si era illuso che potesse emergere dai lavori della Cop25 resterà deluso: i discorsi sull’argomento, iniziati sabato scorso, si sono subito arenati sul disaccordo su diversi punti.
E mentre i leader mondiali, tra una cena di gala e uno sciopero nazionale, si ostinano nelle loro finte promesse, la situazione si sta facendo rovente. In Brasile, in Siberia, ma anche in altre parti del pianeta, lo sviluppo tecnologico che presto potrebbero portare l’uomo su Marte non è bastato a spegnere incendi che stanno distruggendo centinaia di migliaia di ettari di bosco con conseguente aumento della CO2. In Australia, sulle Gospers Mountain e anche sulle Blue Mountains, area protetta dichiarata Patrimonio dell’umanità, nel Nuovo Galles del Sud, in pochi mesi, sono andati in fumo oltre 800mila ettari di aree protette, come ha dichiarato Chris Gambian, amministratore delegato dell’organizzazione australiana Nature Conservation Council.
Le conseguenze geopolitiche dell’incapacità di gestire il pianeta in modo “sostenibile” (nel 1987 furono necessarie oltre 300 pagine di elaborato per dare una definizione di “sviluppo sostenibile”) sono sotto gli occhi di tutti.
Diversi studi hanno dimostrato che, in molti paesi, milioni di persone lavorano esposti a temperature eccessive, con conseguenze spesso mortali. In altri rapporti si parla di “shock climatici” e di focolai di malattie infettive che, insieme a conflitti prolungati oltre misura, avrebbero causato, nell’ultimo anno, un aumento dei “bisogni globali” per circa 22 milioni di persone, come ha dichiarato Mark Lowcock ai giornalisti a Ginevra, in occasione del lancio dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) Global Panoramica umanitaria. “Nel 2020, quasi 168 milioni di persone in tutto il mondo avranno bisogno di assistenza e protezione umanitarie”, ha detto, “una persona su 45 sul pianeta. È la cifra più alta degli ultimi decenni”. E a pagare il prezzo più alto, come sempre, sono i bambini: i conflitti armati “stanno uccidendo e mutilando un numero record di bambini”, ha detto Lowcock.
Un altro rapporto, il Climate risk index, curato dall’organizzazione non governativa tedesca Germanwatch, parla di 500mila persone che hanno perso la vita negli ultimi 20 anni a causa degli oltre 12mila eventi meteorologici estremi. E secondo l’OMS, in 2016, 600mila bambini con meno di 15 anni sarebbero morti a causa di malattie riconducibili all’inquinamento dell’aria. In Italia l’esposizione al particolato, al biossido di azoto e all’ozono troposferico, avrebbe causato la morte di 76.200 persone solo in un anno, secondo l’Agenzia europea per l’ambiente. Secondo un recentissimo studio pubblicato su Lancet, l’Italia è il peggiore paese in Europa per mortalità da smog.
Il nocciolo della questione è sempre lo stesso, ormai trito e ritrito al termine di ogni COP: a causare i danni sono le politiche adottate dai paesi più sviluppati e delle multinazionali, incuranti delle conseguenze sull’ambiente e sulla salute umana delle loro scelte. A pagare il prezzo più alto sono i paesi più deboli e i loro abitanti (peraltro poco o niente affatto responsabili di questi cambiamenti): dei 10 paesi più danneggiati dal cambiamento climatico sette sono paesi considerati reddito basso o medio-basso (con in testa Porto Rico, Myanmar e Haiti). Che fine ha fatto la norma “chi inquina, paga” riportata nelle leggi di molti paesi e in molte direttive internazionali? Anche le promesse di aiuti ai paesi poveri in cambio del loro silenzio spesso si rivelano essere una chimera: un rapporto l’Organizzazione Mondiale della Sanità, riportante i dati provenienti da 101 paesi dimostra che solo il 38% ha previsto finanziamenti destinati ad implementare anche parzialmente la strategia nazionale per l’ambiente (meno del 10% ha convogliato risorse per implementarlo completamente). “Il cambiamento climatico non sta solo accumulando un conto per le generazioni future da pagare, è un prezzo che le persone stanno pagando ora con la propria salute”, ha detto Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Non indifferenti anche gli effetti geopolitici dei cambiamenti climatici. A denunciarlo è il rapporto di Oxfam “Forced from Home Climate-fuelled displacement”: “Le catastrofi naturali alimentate dall’impatto del cambiamento climatico sono la prima causa al mondo di migrazioni forzate all’interno di Paesi spesso già poverissimi o dilaniati da conflitti. Negli ultimi 10 anni sono aumentate di 5 volte e hanno costretto oltre 20 milioni di persone ogni anno, 1 persona ogni 2 secondi, a lasciare le proprie case per trovare salvezza altrove” https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2019/12/mb-climate-displacement-cop25-021219-en_final.pdf
Tanti dati, tanti numeri e tantissimi problemi. Secondo alcuni la COP25 era l’ultima opportunità per definire misure da inserire nel piano per l’ambiente da lanciare l’1 gennaio 2020. Ma molti paesi hanno rallentato questo processo. Paesi come Stati Uniti d’America, Russia e poi Australia, Brasile, India, Cina e Arabia Saudita. Anche il “Nuovo patto verde” dell’UE, a leggere fino in fondo i numeri, potrebbe non servire a molto.
Lo stesso segretario Generale delle NU Guterres appare sconfortato e deluso: su Twitter, dove ha annucniato il contenuto del suo discorso finale ha detto “The magnitude of the climate emergency is jeopardizing our future and life as we know it. I have come back to #COP25 to appeal for a successful conclusion of the conference and increased #ClimateAction and ambition”. “The enormous opportunities linked to #ClimateAction are overlooked too often. Economic growth and tackling the climate crisis go hand in hand. The green economy is the economy of the future and we need to make way for it right now”, ha detto oggi Guterres.
Il problema è che il mondo imprenditoriale non è affatto “green”. A Madrid è stato presentato come un successo la dichiarazione di qualche centinaio di imprenditori che hanno il ribadito il loro “pieno supporto all’Accordo di Parigi” e chiesto “con forza a tutti i governi di mettere in campo le azioni necessarie per raggiungere i suoi obiettivi, con la massima urgenza” come si legge nel loro comunicato ufficiale.
Una dichiarazione che si scontra con i risultati di un’inchiesta condotta dall’associazione InfluenceMap che ha scoperto che, se da un lato alcuni investitori promuovono l’ “etichettatura verde”, il 98% dei 50 maggiori investitori europei farebbe parte di lobby che cercano di indebolire le proposte ambientaliste. E, per farlo, alcuni grossi gruppi del settore petrolifero e del gas avrebbero addirittura esercitato pressioni per far definire “verdi” i progetti che verdi non sono, come l’utilizzo del gas naturale (la combustione del gas per generare elettricità, emette metà del carbonio rispetto alla combustione, ad esempio, del carbone, ma, per contro, emette potenti gas a effetto serra che accelerano le crisi climatiche).
Dopo la COP25, la situazione non cambierà molto. E la gente lo sa, stanca com’è di essere presa in giro, di ascoltare promesse mai mantenute. Ora vuole fatti non parole.
É per questo che, a ben guardare, il compito dei leader mondiali non sarà facile: dopo aver letto tutti questi “numeri”, dopo aver scorso tutti questi dati, convincere i cittadini che i governi stanno “davvero” facendo qualcosa per l’ambiente sarà quasi impossibile.