Due parole che nel linguaggio comune vengono a torto usate come sinonimi sono: “Sofferenza” e “dolore”. La prima proviene dal Latino tardo “sufferentia” “sopportazione, pazienza” e indica la risposta individuale, soggettiva, più o meno intensa, al dolore, dal Latino “dolor”, che invece ha un carattere universale. Solo nelle malattie psicosomatiche, a causa delle quali pene psicologiche particolarmente intense influiscono sulla salute del corpo debilitandola, il confine tra i due concetti diventa più sfumato.
L’Uomo soffre per sua natura dalla nascita alla morte, è innegabile e, come sosteneva il filosofo polacco A. Schopenhauer (1788/1860), quanto più si brama di vivere tanto più si patisce, ma attraverso il tormento… si impara, “pàthei màthos”, insegnava il grande tragediografo greco Eschilo (525 a.C./456 a.C.). Un mortale può patire psicologicamente ( i Greci definivano questo stato d’animo alterato “pàthos”) o fisicamente (i medesimi lo chiamavano “àlgos”), fatto sta che, fin dai tempi più remoti, l’essere umano, per una ragione o per l’altra, non ha mai condotto un’esistenza serena, se non a brevi tratti, e soprattutto illudendosi.
Da quando egli è comparso sulla Terra il dolore si è manifestato subito ai suoi occhi come “spiacevole emozione” ed è trascorso davvero lungo tempo perché potesse comprendere la differenza tra uno stato “normale” ed uno “patologico”. “Algos” era già presente nella mitologia greca, come divinità appunto del dolore, nato da Eris (divinità della discordia) e fratello di altri “disturbatori” della salute fisica e della serenità psicologica come Lìmos (Fame) e Lèthe (Dimenticanza). Algos discendeva da una forza oscura, primordiale, irrazionale e, se riflettiamo, il dolore arreca caos, disordine, irrazionalità nella vita umana; esso induce a leggere la realtà in modo deformato come se chi ne è colpito fosse, appunto, avvolto dalle tenebre.

La prima attestazione di dolore giunta a noi risale al IV millennio a.C.: si tratta di una cefalea acuta (dal greco “kefalè”, testa), comunemente nota come “mal di testa”. Ma anche nel mito greco è presente la cefalea. Un giorno Zeus, padre degli dei, fu colpito da un violento dolore al capo, era come se il suo cranio dovesse esplodere. Chiamò in soccorso Ermes, messaggero divino, che a sua volta convocò Efesto, il fabbro degli dei. Questo, munito di ascia, colpì violentemente e provocò una frattura nel cranio di Zeus. Dalla ferita balzò fuori la dea Atena. Forse si tratta di un caso di emicrania o secondo altri del primo intervento di neurochirurgia: la trapanazione del cranio per evacuare un ematoma?
Ma il mito greco ci descrive anche come nacquero le malattie. In origine, nella mitica e lontanissima “età dell’oro”, in cui tutto era perfetto e regnava la felicità, l’Uomo non si ammalava mai e non si affaticava poiché la terra produceva spontaneamente ogni frutto. Un giorno il titano Prometeo decise di rubare il fuoco (che simboleggia il progresso) agli dei per farne dono agli uomini. Zeus, adiratosi terribilmente, punì l’intera stirpe umana inviando una donna di nome Pandora insieme ad un vaso sigillato sul cui fondo si trovavano malattie e sofferenze. Ma Pandora, catturata dalla curiosità, aprì il coperchio ed ogni forma di male usci dal contenitore. Da quel momento si diffusero nel mondo patologie di ogni natura e gli uomini condussero un’esistenza difficile e dolorosa che inevitabilmente sarebbe terminata con la morte.
Tornando alla cefalea nella storia: era un problema diffuso più di quanto possiamo supporre, ma… come veniva curata? Sappiamo che gli Assiri (che abitavano nella parte settentrionale dell’odierno Iraq), intorno al 3000 a.C., intervenivano chirurgicamente trapanando la scatola cranica. Esisteva già un modo per non fare soffrire atrocemente il paziente? Non c’era ancora un’anestesia esattamente come intendiamo noi oggi, ma se riflettiamo sull’ etimologia della parola (dal greco “a”, ”non”, “aisthànomai” “avverto una sensazione”), allora sì, esisteva. Infatti veniva schiacciata con violenza la carotide del sofferente fino al punto da provocargli un’ischemia cerebrale che avrebbe condotto al coma e poi si interveniva.
Cosa s’intende esattamente per “coma”, la più remota forma di “anestesia”? Dal Greco “kòma”, “sonno”, derivato a sua volta dal verbo “kèimai” “giaccio”, indica uno stato d’incoscienza, in Inglese” Unarousable unresponsiveness”.
La prima anestesia ci è nota da un passo della Bibbia in cui Adamo fu addormentato da Dio per potere “cedere” una costola.
Gli Egizi per ottenere l’insensibilità del paziente si servirono dapprima dell’effetto freddo, “krioterapia” dal greco “krùos” “freddo ghiacciato” e “therapèia” “cura”, utilizzando neve o acqua fredda al fine di rallentare la circolazione del sangue e, di conseguenza, diminuire la percezione del male; in seguito fecero uso della famosa “pietra di Menfi” una roccia ricca di silicati a cui erano riconosciuti poteri benefici, se non addirittura magici, e che veniva sgretolata sulla parte da trattare, soprattutto quando l’intervento consisteva in un’ amputazione. La maniera più sbrigativa poteva consistere infine nello sferrare un colpo secco sulla testa del paziente al fine di stordirlo.

L’Uomo quindi, fin dalla sua comparsa sulla Terra, ha dovuto affrontare il dolore e di conseguenza la sofferenza. Sulle pareti delle Grotte di Lascaux (Francia sud-occidentale scoperte nel 1940 e risalenti al 15.000/20.000 a.C.) la pittura parietale che rappresenta, attraverso un’evidente sproporzione di dimensioni, un essere umano minuscolo difronte ad un animale (bisonte?) di dimensioni gigantesche, sottolinea il terrore, ma anche il dolore che un essere così fragile e inerme deve avere provato.
Concludo la prima uscita di questa serie di articoli sulla “Medicina nella Storia” citando alcuni passi tratti da “Il giardino sofferente” dello “Zibaldone” del poeta G. Leopardi (1798/1837).
“Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu, e sarà sempre, infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto, ma tutti gli altri esseri a loro modo. Non gli individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance (sofferenza), qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole , che gli ha dato la vita; si corruga, langue ,appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce miele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha foglie più secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto (venticello) va stracciando un fiore, vola con un brano , un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia (abbondanza) di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci appare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cimitero), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il “non essere” sarebbe per loro assai meglio che l’”essere”.