Quando pensiamo all’antica Roma, la mente di tutti noi corre spontaneamente verso nomi altisonanti del mito o della storia: ma non ci ha mai sfiorato l’idea che anche questi eroi si ammalassero e soffrissero a causa di disturbi fastidiosi quanto e più dei nostri e che non avessero a disposizione rimedi efficaci quanto quelli che abbiamo oggi per trovare un lenimento ai loro dolori? Le malattie nell’antica Roma nella loro eziologia e diffusione erano causate principalmente dallo stile di vita, dalle condizioni igienico-sanitarie e dall’assenza di un’assistenza sanitaria dotata di ospedali e medici preparati; facevano eccezione le strutture da campo per la terapia dei soldati feriti in battaglia (l’imperatore Augusto non solo volle medici preparati per le sue legioni, ma iniziò a scegliere il sito degli accampamenti permanenti con maggiore attenzione, evitando zone paludose o troppo aride che sarebbero state nocive per la salute delle truppe). Per questo gli antichi Romani, in generale, non avevano speranze molto concrete di vivere oltre i 27 anni.
La curiosità mi ha indotta ad approfondire questo tema che ora desidero condividere con voi; molte delle patologie che leggerete sono tuttora presenti sul nostro pianeta. In primo luogo i parassiti. Il parassita (dal greco “pará” e “sítos”, cioè “accanto, presso” e “cibo, nutrimento”) è quell’essere che trae il proprio sostentamento sfruttando il corpo al quale si lega privandolo di energia e creandogli difficoltà. I Romani antichi, nonostante l’attenzione nei confronti dell’igiene personale superiore rispetto ad altre popolazioni e ad altre epoche storiche, furono attaccati da tre forme parassitarie causate dall’“Ascaride”, dal “Tricocefalo”, dall’ “Entamoeba hystolitica”. Il tricocefalo, in particolare, (dal greco “thríx” “capello” e “kefalé” “testa”) è un verme caratterizzato dalla parte anteriore filamentosa e raggiunge i 45/50 mm. Esso vive nel colon, nell’intestino cieco e nell’appendice dell’uomo. Dà esiti infiammatori ed infettivi.
L’ascaride (dal greco “askarís”, derivato a sua volta dal verbo “askarízo” “salto”), già conosciuto dai Greci, per la sua presenza, causa nell’uomo dispnea, gonfiore e dolore addominale, diarrea, nei bambini scarsa crescita, difficoltà di apprendimento.
L’entamoeba hystolitica, la più pericolosa, è un’ ameba killer e ancora oggi rappresenta la principale causa di morte per parassitosi al mondo. L’infezione si trasmette da uomo a uomo o attraverso acqua e cibi contaminati. Provoca ulcerazioni, emorragie e raggiunge il fegato e i polmoni. Come sintomi presenta la dissenteria e l’epatite. Scavi archeologici svolti dall’Università di Cambridge su siti assai lontani da Roma ( l’analisi è stata condotta su latrine, coproliti, pettini, tessuti) hanno dimostrato la presenza dei medesimi parassiti presenti nell’Urbe, probabilmente dovuta ai commerci e agli spostamenti delle legioni.
Ma perché questo fenomeno? Le spiegazioni possono essere differenti: innanzitutto il “garum”, la famosa salsa per la quale i Romani impazzivano e che erano disposti ad acquistare a prezzi elevatissimi: in cosa consisteva? Era preparato con interiora di pesci, erbe di vario tipo, sale e spezie e , fin qui, niente di particolarmente strano, ma… non veniva cotto, bensì lasciato a marcire sotto il sole, finché non ne fosse stata tratta una sostanza densa che non fatichiamo ad immaginare come habitat ideale per i parassiti. Ancora, le “thermae” che i Romani adoravano, comprendevano delle “piscinae natatoriae” “piscine adibite al nuoto” la cui acqua non era cambiata di frequente e, così, in superficie si formava una schiuma molto…sana.
Un’ulteriore causa può essere stato il modo di fertilizzare i campi: dalla città provenivano le feci che venivano subito utilizzate come concime, anziché, come sarebbe stato opportuno, lasciate a riposo per mesi. In tale maniera le larve dei parassiti potevano passare direttamente nei vegetali.
Un’altra patologia che disturbava molto i Romani era la carie dentale, nonostante, com’è noto, non conoscessero lo zucchero e non assumessero cibo manipolato. Allora quali potevano essere le motivazioni? Probabilmente alimenti molto grezzi che usuravano la dentatura permettendo ai batteri di attaccare la polpa dentaria, oppure il miele stesso, usato come dolcificante, o forse lo scarso uso di detergenti per i denti. Sì, perché esisteva un “dentifricium”, ne parlano infatti i poeti Ovidio (43 a.C./18 d.C.) e Marziale (41 d.C./104 d.C.). Taluni, come ricorda il poeta Catullo (84 a.C./54 a.C.), seguivano l’usanza di sbiancarsi i denti con ripetuti sciacqui di urina. Plinio il Vecchio ( filosofo e naturalista romano, morto nel corso dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.) raccomandava di curarsi con un bruco di cavolo o con un tarlo del legno che «posto nella cavità di un dente ammalato lo fa cadere». La stravagante terapia nasceva dalla credenza che all’origine della carie ci fosse un verme che solo un altro verme avrebbe potuto sconfiggere.
I Romani tenevano ad ogni modo tantissimo alla bellezza del loro sorriso: esistevano già i ponti in oro, ereditati dagli Etruschi, le dentiere, le meno costose erano in legno, addirittura con i denti neri e… una delle Leggi delle XII Tavole (451 a.C./450 a.C.) prevedeva pene severe per chi avesse danneggiato la dentatura di un’altra persona, in particolare trecento assi per la caduta di un dente di un uomo libero, centocinquanta assi per la caduta di un dente di uno schiavo.
Il Saturnismo (il cui nome deriva dal latino “saturnus”, simbolo alchimistico del piombo) rappresentava un’altra grave causa di malattia per i Romani (presente ancora oggi in talune particolari condizioni lavorative): è una forma di avvelenamento che, se non curata, conduce lentamente alla morte. Responsabile di questa patologia è il piombo presente nella Roma antica su larga scala nelle condutture d’acqua e utilizzato come additivo per addolcire il vino; la biacca di piombo era per le donne romane un indispensabile cosmetico che pare rendesse più chiara e luminosa la carnagione del volto. Il piombo può penetrare nell’organismo o attraverso la cute o per il canale digerente o ancora attraverso le vie respiratorie. Se arriva all’organismo attraverso il tratto digerente, in parte viene trattenuto dal fegato, in parte passa nel sangue dove si trasforma in difosfato di piombo colloidale e si deposita nelle ossa. Tra i sintomi più frequenti del saturnismo risultano: dolori addominali, colorazione grigio-bluastra delle gengive, nelle forme più gravi delirio, epilessia, demenza.
Ancora, i Romani soffrivano particolarmente di congiuntivite: Cicerone in una lettera al fratello Quinto afferma di dover dettare le parole ad uno schiavo in quanto gli dolgono fortemente gli occhi. Altrettanto frequentemente erano colpiti dal disturbo delle vene varicose che impararono a rimuovere chirurgicamente. Celebre fu il caso di Caio Mario ( (157 a.C./86 a. C.), l’homo novus, che si fece estrarre le varici senza farsi legare al letto e senza assumere intrugli di erbe che avrebbero annebbiato la sua lucidità (si ricorreva a questi mezzi perché ovviamente l’anestesia non esisteva). Non erano inoltre infrequenti patologie infettive quali meningite, tifo, tetano, difterite.
Gli antichi Romani venivano colpiti da artrosi all’anca già a 30 anni, a causa dell’enorme carico di lavoro a cui le loro articolazioni erano sottoposte. Nonostante allora, più che oggi, le persone fossero abituate a convivere con patologie veramente dolorose come l’artrosi, tuttavia si cercava di alleviare la loro sofferenza attraverso bagni termali o l’immobilizzazione, questo in caso di fratture: le ossa venivano “rinchiuse” in pesanti strutture di legno in attesa della guarigione che poteva essere molto lunga, ma spesso impossibile. Il mal di testa martellante, la gotta, l’epilessia trovavano giovamento grazie all’applicazione sulla parte sofferente della torpedine, un pesce di forma appiattita che ha sui fianchi un organo capace di produrre scariche elettriche con funzione antalgica ed antinfiammatoria.
Infine, in ambito femminile, frequentissima era la morte per parto: ricordiamo il dolore straziante di Cicerone per la perdita dell’amatissima figlia Tullia (79 a.C./45 a. C.), che lui chiamava affettuosamente “Tulliola”,”piccola Tullia”, quando diede alla luce il figlio del marito Dolabella.
Ma, come insegna Aulo Gellio (125 d.C./180 d.C.), tutto bisogna sopportare perché… “Le malattie e le sofferenze sono venute al mondo contemporaneamente alla salute”