Rievocare ai nostri tempi di nazional-populismo quando accadde un secolo fa tra Mosca e le capitali europee appena uscite dalla Prima guerra mondiale, risulterà a molti come riesumare una mummia egizia. Eppure, per le ragioni che si illustreranno, quei fatti pesano sul destino dell’Italia e del mondo, molto più di quanto si tenda a ritenere.
La vicenda cominciò con i sommovimenti interni alla galassia del socialismo democratico nell’immediata vigilia della Prima guerra mondiale. A cavallo del nuovo secolo, i socialisti del vecchio continente stavano appena trovando rappresentanza in molti parlamenti nazionali, cercando di sovvertire il tradizionale volto classista che le Camere rappresentative della democrazia cosiddetta borghese avevano ancora alla fine dell’ottocento. Quelle pattuglie di eletti dagli “sfruttati e lavoratori”, e da intellettuali e professionisti sensibili alla “questione sociale”, si ritrovarono ad affrontare una sfida imprevista, totalmente impreparati e senza un adeguato dibattito interno.
Erano imbevuti di pacifismo e internazionalismo tesi ad affratellare gli esseri umani, specie “gli sfruttati” della Terra, ovunque si trovassero e sotto qualunque bandiera nazionale fossero catalogati dai loro governi.
Filippo Turati, padre del socialismo democratico italiano, nel primo discorso alla Camera, nel 1896, aveva tuonato, rivolgendosi ai banchi della destra storica: “Noi vagheggiamo l’unità mondiale e in un domani più prossimo gli Stati Uniti d’Europa, i quali moltiplichino con provvido intreccio le varie potenzialità dei popoli senza cancellarne le singole fisionomie”. Con questo tipo di idee ben radicate, i vari socialismi europei furono chiamati a votare i crediti di guerra, ovvero le autorizzazioni ai rispettivi governi di poter disastrare gli equilibri di bilancio e armarsi adeguatamente per poter ammazzare quanti più avversari possibili.
Le piazze erano piene di gente invasata dal genio del nazionalismo, vogliosa di menare le mani per questo o quell’ideale agitato dai rispettivi governi, i giornali pizzicavano le corde patriottarde e narravano le storie più adatte a farle vibrare. I gruppi parlamentari socialisti non erano né abbastanza forti politicamente né così numericamente numerosi da potersi imporre: inoltre taluni socialisti (si prenda il caso del massimalista Benito Mussolini, direttore del quotidiano del partito Socialista Avanti!), si lasciavano via via attrarre dalle sirene dell’interventismo. A un certo punto fu chiaro che votare contro i crediti esponeva il socialismo democratico all’accusa di disfattismo e connivenza con il nemico. Peraltro in diversi paesi, venivano anche agitate dalla propaganda bellica delicate questioni irredentiste: l’Italia, ad esempio attendeva la prima occasione per completare la sua unità territoriale con le città e le terre di nord est ancora in mano dell’Asburgo. Ma votare per i crediti significava per molti socialisti tradire la grande causa della fratellanza sociale universale.
Così si aprirono crepe e fratture che mai più si sarebbero ricomposte: a Berlino il distacco dal partito Socialdemocratico (Spd), di Rosa Luxemburg e Karl Liebkneckt con la successiva fondazione della Lega Spartachista e del partito Comunista Tedesco nacque in quella temperie.
Nel dopoguerra, le scorie di quel conflitto ideologico trovarono un catalizzatore: l’avvenuta rivoluzione dei soviet in Russia. Un po’ ovunque nell’Europa centro occidentale, le componenti che a sinistra erano stato critiche del realismo socialdemocratico, uscirono ufficialmente dalla famiglia socialista, dando vita ai partiti comunisti nazionali. L’esodo, più o meno corposo, di dirigenti e militanti verso le promettenti sponde del trionfante comunismo bolscevico, avveniva su base ideologica, nell’incapacità di capire sia la natura di quanto stava accadendo in Russia, sia il fatto che in quel modo s’indeboliva l’unico possibile argine al montante nazional fascismo europeo.
Il peggio accadde in Germania; nel crepuscolo dell’impero guglielmino, mentre muoveva i primi passi la repubblica di Weimar (1918-1933), Luxemburg e Liebknecht lavorano all’utopia di un comunismo “consiliare” e guidano l’agitazione sociale e intellettuale permanente, mettendosi contro il legittimo governo socialdemocratico che fa riferimento a Friedrich Ebert. Non comprendono o non vogliono comprendere che così ostacolano il percorso del parlamentarismo imboccato dalla Spd, che punta alla salvezza della fragile neonata repubblica. Ai due rivoluzionari sfugge che l’alternativa alla democrazia borghese di Weimar non sarebbe stato più socialismo, ma il nazionalismo degli junker tornati sconfitti dalla guerra, appoggiati dagli industriali falliti e dai milioni di proletari e sottoproletari rovinati dal disastro bellico. Nel nome della Menschheit (umanità) per la quale si battevano, Luxemburg e Liebneckt schiereranno la Lega Spartachista sulle barricate della rivolta, pur non condividendone né certe premesse né il metodo, dando alle bande dei Freikorps e al ministro della Difesa Gustav Noske che le manovrava e ne era a sua volta manovrato, il destro per l’arresto e l’immediato assassinio il 15 gennaio 1919.
In Italia, due anni dopo, al congresso socialista di Livorno, gli scissionisti di Gramsci fonderanno il partito Comunista nostrano.
Non sorprenderà che l’effetto frantumazione non solo stesse colpendo i singoli partiti socialisti e socialdemocratici sul piano interno, ma si trasferisse sulla loro organizzazione internazionale, la Seconda Internazionale. Questa si era schiantata ai primi colpi di cannone già nel 1914, benché l’annuncio ufficiale fosse arrivato solo nel 1916. Anche quel “libera tutti” internazionalista contribuiva a spingere taluni socialisti a lasciarsi ammaliare dall’unica rivoluzione sociale riuscita e dal modello socialista vincente, quello dei soviet.
Isolati dal mondo, i bolscevichi di Lenin e Trockij avevano, da parte loro, l’obiettiva necessità di superare la sindrome da accerchiamento, strutturando un’alleanza con gli ex socialisti che volevano “fare come i russi”, generando un movimento politico mondiale del quale sarebbero stati egemoni. Con questo spirito fu convocato a Mosca, nel marzo di un secolo fa, un congresso mondiale di socialisti e comunisti più o meno filo bolscevichi, dal quale sarebbe stato votata la creazione di Comintern, l’ufficio mondiale di collegamento coordinato dal Pcus.

L’evidenza della sua natura di docile strumento nelle mani dei capi del comunismo mondiale la confermerà Stalin, sciogliendolo il 1° giugno 1943, cinque mesi dopo la fine della battaglia di Stalingrado e il ripiegamento nazista (formalmente la proposta era stata assunta il 15 maggio dal Comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista), al culmine dell’alleanza con Roosevelt. Nel frattempo, quello strumento di penetrazione fintamente ideologico e liberatorio, cardine dell’espansionismo che lo stato dei soviet puntava a realizzare, aveva prodotto tutte le divisioni e fratture possibili nella galassia del socialismo democratico. Ciò che fece durante la guerra civile spagnola, in particolare contro gli anarchici, complice Togliatti, fu spaventoso. Più in generale Comintern considerò il socialismo democratico “social traditore”, nemico giurato da contrastare e abbattere.
In materia illumina il gustoso episodio narrato da Ugo Intini, già direttore di Avanti! e stretto collaboratore di Bettino Craxi, in uno scritto che andrà presto in stampa in America. Nel 1920 la delegazione socialista incontra Lenin. Lazzari, Maffi e Riboldi raccontano che in Italia gli operai stanno occupando le fabbriche. “Bravi”, dice cordiale Lenin, “le avete occupate, e questo è il primo passo. Adesso cosa farete dei padroni delle fabbriche?”. I poverini guardano l’orco, interroganti. “Uccideteli!”, intima Lenin. Riboldi, mite sindaco di Monza, si prende la sua dose di scherno quando controbatte: “Ma no, noi a Milano siamo brava gente. Queste cose non le facciamo”.
Turati vedeva giusto, quando avvertiva Gramsci e i suoi:
“Col tempo il mito russo sarà evaporato. Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo di cui voi farneticate la riproduzione meccanica che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se possibile fosse, ci ricondurrebbe al Medioevo. Avrete capito allora che la forza del bolscevismo russo è nel peculiare nazionalismo che vi sta sotto e che è pur sempre una forma di imperialismo. Questo bolscevismo oggi si aggrappa a noi furiosamente a costo di dividerci, di annullarci, di sbriciolarci. Ma noi non possiamo seguirlo ciecamente, perché diventeremmo per l’appunto lo strumento di un imperialismo eminentemente orientale”.
Lenin aveva chiamato Turati “noto opportunista” nel documento ufficiale approvato al II Congresso Comintern, nell’estate 1920.
L’avvedutezza profetica del patriarca del socialismo italiano avrebbe trovato conferma nella stagione dello stalinismo. Morto Lenin, disinnescato Lev Trockij, dal 1926 il Comintern cominciò a funzionare senza remore come strumento della teoria del socialismo in un solo paese.
Mentre i fascismi salivano al potere o si attrezzavano per farlo, le sacche di resistenza sociale che erano state socialiste ed erano ora comuniste, venivano separate dal grosso del movimento operaio, e messe al servizio non dell’interesse nazionale alla democrazia e alle riforme nei distinti paesi europei, ma del dispotismo asiatico che Stalin iniziava consapevolmente a edificare. La strumentalizzazione sovietica dell’internazionalismo sarà nuovamente evidente nel secondo dopoguerra, quando Stalin, vinta la guerra e ora impegnato nel confronto est ovest, fonderà nel settembre 1947 il Cominform (Ufficio d’informazione dei partiti comunisti e operai), nuova centrale per dirigere e organizzare le quinte colonne comuniste nei vari paesi. La dissoluzione di Cominform, il 17 aprile 1956, all’indomani del XX Congresso del partito Comunista Sovietico, con la riappacificazione con l’allora Iugoslavia e la destalinizzazione, sarà lì a ribadire il legame ancillare che il cosiddetto internazionalismo proletario veniva ad avere rispetto agli interessi di potenza di Mosca.
È vero che, nel novecento, la politica estera delle potenze è divenuta ideologica, il che ha avuto, tra gli effetti, quello di costringere gli stati a mascherare sempre sotto qualche utopia o principio morale, ciò che un secolo prima, in pieno imperialismo britannico, era chiamato, senza infingimenti, “interesse nazionale”, due paroline che assolvevano ogni misfatto dello stato contro terzi esterni, esaltando a rango di eroismo il crimine economico o bellico di turno compiuto nel nome della grandezza della propria nazione.
Lo stato “etico” raggiunse il vertice dell’ignominia con le dittature sanguinarie realizzate sul continente euroasiatico a partire dal 1922. La galleria degli orrori dei loro esponenti è purtroppo stracolma e conta le sue vittime nell’ordine delle centinaia di milioni di esseri umani.

Vi è quasi sempre, all’inizio di quegli orrori, l’aspirazione alla “purezza” dell’idea, all’assolutezza della soluzione per i mali e i limiti dei sistemi politici e sociali contro i quali ci si batte. La storia mostra, anche nell’episodio qui richiamato nel centenario della fondazione di Comintern, che il rifiuto del gradualismo e del riformismo nell’affrontare le questioni sociali, economiche e politiche, porta presto al rifiuto della razionalità e all’adesione ai miti fondanti di ogni dittatura.
L’Europa sta pagando tuttora, in occidente quella frattura a sinistra mai ricomposta, nella fascia centro-orientale il ritardo di democrazia liberale frutto di lunghi decenni comunisti, ad oriente la democratura personalista di Putin, già uomo del Kgb sovietico.
Su questa un’ultima riflessione. Che un siffatto sistema di potere personalista, che intimidisce i paesi confinanti, elimina gli avversari, interferisce nei meccanismi istituzionali delle democrazie liberali, trovi ammiratori e sodali negli attuali vertici di democrazie come quelle statunitense e italiana, non è una buona notizia. Da Mosca un secolo fa le parole d’ordine per manipolare le opinioni pubbliche e frantumare i movimenti progressi passavano via Comintern. Oggi può bastare il subdolo meccanismo dei social.
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