Inizia l’anno e, come da un po’ di anni a questa parte, viene fatta la valutazione della ricerca comparando i risultati tra nazioni e tra le differenti istituzioni a livello mondiale. E’ appena uscito il rapporto SCIMAGO relativo al 2013 che considera gli articoli scientifici indicizzati nel database Scopus di Elsevier relativi al periodo 2007-2011. Ancora una volta gli Usa e la Cina dominano il panorama. L’Italia viene classificata all’ottavo posto, ma se si guarda il numero di citazioni per articolo, la classifica cambia notevolmente. La Cina passa nel novero delle nazioni con minori citazioni con 6 citazioni per articolo, mentre l’Italia retrocede notevolmente posizionandosi in un gruppo centrato attorno a 15 citazioni che comprende l’Australia, la Francia, la Germania, il Belgio, per citare alcune nazioni. E’ da notare che l’Olanda ha un numero di citazioni (21) superiori a quelle degli Stati Uniti (20) che vengono superati pure dalla Svizzera (22) e dalla Danimarca (21).
Lo stesso studio è stato fatto a livello delle singole istituzioni. Sono state valutate 2744 fra università, enti di ricerca e istituti pubblici e privati con il maggior numero di pubblicazioni, responsabili complessivamente di oltre il 70% della produzione scientifica mondiale.
Come per l’anno scorso, al primo posto figura il Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS, analogo al CNR) francese, con oltre 200 mila lavori indicizzati, seguito dalla Chinese Academy of Sciences (oltre 150mila), dalla Russian Academy of Sciences (93mila), dalla Harvard University (74mila) e dal Max Planck Gesellschaft (52mila). La prima istituzione italiana che s’incontra, al 23esimo posto, è il CNR, con 39874 lavori, perdendo due posti rispetto all’anno scorso. Al 194 posto vi è l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare che guadagna due posti . Il successivo, l’INAF, figura alla 477esima posizione della graduatoria globale, perdendo 14 posti. La prima Università è la Sapienza di Roma a quota 75, la successiva, l’Università di Bologna Alma Mater è al 110mo posto, quella di Padova al 125esimo, Milano al 132esimo posto.
Ovviamente, il numero di pubblicazioni, trattandosi di un parametro assoluto e meramente quantitativo, non tiene in alcun conto né della dimensione delle singole istituzioni né della qualità dei lavori. Gli stessi autori del rapporto mettono in guardia che i dati non devono essere utilizzati per fare confronti o per stabilire una graduatoria di merito fra istituzioni. Tuttavia il rapporto fornisce altri indicatori che danno un’idea della qualità e dell’impatto globale della produzione di ogni singola istituzione e del loro impatto nel contesto mondiale della ricerca scientifica.
Il Normalized Impact (NI che tiene conto del numero di citazioni ricevute dalle pubblicazioni di ogni istituzione, contestualizzandole per area tematica, tipo di pubblicazioni e periodo, e normalizzandole rispetto alla media mondiale). Ancora una volta, come l’anno scorso, l’American Cancer Society, ha un NI pari a 6.95 ed è in cima a tutti ed ha un impatto scientifico superiore di 6 volte alla media mondiale. Gli istituti italiani si attestano su un valore tra 1.03 e 1.67.
L’indicatore di Excellence Rate (ER), misura la percentuale di produzione scientifica di un’istituzione che rientra nel 10% delle pubblicazioni più citate nella propria categoria, riflettendo la capacità di produrre conoscenza scientifica di alta qualità. A livello mondiale, il MIT con Harvard, hanno ben il 59%, il che vuol dire che una su due pubblicazioni rientrano fra il 10% delle più citate al mondo. Le istituzioni italiane si attestano attorno al 15%. In generale, quasi tutti gli istituti italiani se la cavano comunque egregiamente, superando il valore medio atteso che è appunto il 10%.
Infine, l’indicatore Q1 che indica la capacità che hanno i ricercatori delle varie istituzioni di pubblicare sulle riviste scientifiche migliori, ovvero quelle che nel data base di SIR rientrano nel primo quartile. Guida la classifica lo Howard Hughes Medical Institute il cui Q1 è pari a 92.23%, il che indica che quasi la totalità dei suoi lavori viene pubblicata su riviste appartenenti al 25% più prestigioso. Fra gli istituti italiani il CNR è al 55.22%, l’Università La Sapienza 49,77%, INFN 43,92%.
Questa situazione riflette lo stato della ricerca mondiale e l’Italia nonostante la perdurante crisi economica, non si sta comportando male. Se comparato con i dati ANVUR, la classifica SCIMAGO indica che il CNR è ancora l’ente di eccellenza. Ricordo invece che ANVUR ha penalizzato e non poco il CNR. Tra le Università emergono La Sapienza di Roma, l’Alma Mater di Bologna e Padova.
Il bilancio della ricerca è decisamente al di sotto degli obiettivi di Lisbona, che prevedevano il 3% del PIL. Certe Università sono affette da nepotismo endemico. L’impatto della ricerca sullo sviluppo industriale è sostanzialmente pari a zero, a dir il vero non solo per colpa delle dinamiche della ricerca, ma soprattutto a causa di un’industria che, tranne qualche raro esempio, dal punto di vista scientifico è arretrata.
Nonostante questo le statistiche ci danno a un buon livello. Ma allora di che ci lamentiamo? Ci lamentiamo del fatto che l’Italia non riesce ad avere delle strutture competitive a livello internazionale. Ci lamentiamo che il bilancio del ritorno dei soldi investiti in ricerca in Europa sia troppo basso. Ci lamentiamo che gli istituti di ricerca abbiano, all’interno, una struttura altamente parcellizzata, incapace di competere con analoghe strutture straniere. Non il singolo ricercatore è carente, ma la struttura che lo accoglie perché non è capace a costruire una squadra.
Che cosa bisognerebbe fare per essere competitivi? Innanzi tutto bisogna riorganizzare gli enti di ricerca. Dodici sono gli enti vigilati dal MIUR, con tre istituzioni medie grandi INFN, INAF e INGV e una grande come il CNR e le restanti istituzioni che sono piccole, se non piccolissime. Uno spreco di risorse. Manca un coordinamento che disegni un percorso che il paese vuol fare per evitare duplicazioni, per avere la capacità di competere a livello internazionale e per dare un indirizzo su quali settori il paese vuole investire. Questo non significa eliminare la ricerca di base, significa razionalizzare il sistema, nel quale anche la ricerca di base è il motore di future ricerche, allo stesso modo che la ricerca applicata.
Un discorso diverso va fatto sull’Agenzia Spaziale Italiana. Ha ancora ragione di essere un’agenzia o è meglio trasformarla in un ente che faccia ricerca? C’è una proposta di trasferimento dell’Agenzia Spaziale sotto la presidenza del consiglio, con lo stesso ruolo di agenzia, ma con organi politici che dovrebbero scegliere gli indirizzi spaziali. Chi ha scritto quella proposta non conosce la realtà della ricerca spaziale europea nell’americana, ma soprattutto questa scelta di un indirizzo politico della ricerca spaziale è antitetica a ogni visione scientifica e in definitiva perdente.
I Tedeschi che avevano un’agenzia analoga alla nostra, la DARA, l’hanno fatta diventare un ente di ricerca fondendola con un ente, il DFVLR, e creando il DLR che è diventato un leader europeo e mondiale, assieme al CNES francese, della ricerca spaziale. Perché non possiamo fare la stessa cosa noi? Ci sono analoghe condizioni per creare un polo scientifico, tecnico e industriale di tutto rispetto. Abbiamo un’industria spaziale di tutto rispetto, ancorché in partecipazione con i Francesi o i Tedeschi ed entità miste, pubblico-private, come il CIRA che possono essere di supporto industriale. Nel settore della ricerca gli accordi con INAF, INFN e INGV potrebbero costituire l’ossatura portante della ricerca.
Poi rimane l’ENEA, vigilato dal Ministero delle attività produttive, un ente che doveva sviluppare la ricerca nel campo dell’Energia Nucleare e che in seguito al referendum ha perso la sua fisionomia iniziale. Attualmente opera in vari settori, in parte sovrapponendosi al CNR e all’INFN. Sarebbe opportuno rivedere il ruolo dell’ENEA nel contesto più ampio della ricerca, trovandogli una collocazione ben precisa. Le risorse umane ed economiche dell’ENEA, seppur negli anni diminuite, sono un patrimonio che non può essere disperso o trascurato.
Un’ultima questione. Nel programma di Renzi manca un benché minimo accenno alla ricerca. A dire il vero manca un po’ in tutti i partiti. E’ ora che la classe politica capisca che se il paese vuol uscire dalla crisi economica si deve investire in ricerca, non con l’attuale assetto, ma riordinandola in senso moderno e soprattutto dando spazio alle competenze e non ai nepotismi. La ricerca non è magia e richiede tempo per entrare nel ciclo produttivo. Se non s’inizia ora, quando?
Siti di riferimento http://www.scimagojr.com/countryrank.php