A seguito dell’incontro fra Papa Francesco e il Presidente Joe Biden a margine del G20, la Voce di New York intervista uno dei massimi esperti di geopolitica vaticana, Piero Schiavazzi, docente della Link Campus University e vaticanista di Limes e Huffington Post, per riflettere sullo status dei rapporti fra Stati Uniti e Chiesa cattolica, lo sguardo del Vaticano proiettato ad Est, e i dossier più spinosi da tener d’occhio nel breve-medio periodo.
Nella sua ultima intervista all’Indro, lei spiega che “Non può tornare un Papa filo-americano” perché “la Chiesa è uscita dalla NATO”, pena il mettere la Chiesa fuori dalla Storia. Qual è la traiettoria geopolitica che Papa Francesco sta imprimendo al suo pontificato in contrapposizione ai progetti americani?
“I papi possono essere progressisti o conservatori, ma tutti avvertono il dovere di consegnare al successore una Chiesa più forte, al centro del mondo, nella Storia, che oggi è ad Oriente, nel Mar Cinese. Francesco deve andare là dove la Chiesa cresce demograficamente ed economicamente. A conferma della continuità vaticana, già nell’Esortazione Apostolica “Ecclesia in Asia” (1997), Papa Wojtyla spiegò che nel primo millennio la Croce fu piantata in Europa, nel secondo millennio nelle Americhe, nel terzo millennio verrà piantata in Asia. E Francesco per andare a Oriente vuole recuperare una purezza evangelica scevra dall’ancoraggio occidentale attraverso la mediazione greco-romana. Il Cristianesimo come lievito che si scioglie in altre civiltà, rompendo con la civitas christianas (che non attecchirebbe in Asia), e che si presenta in Cina col solo Vangelo, predicando una religione abramitica che funga da minimo comune denominatore valido per tutte le nazioni del mondo. La fratellanza abramitica è la concezione di un’epoca storica che precede la democrazia e in “Fratelli Tutti” (Terza Enciclica, 2020), Francesco parla di diritti fondamentali dell’uomo, ma non di diritti politici, cioè voto e democrazia”.

Quale prezzo è disposto a pagare il Vaticano per un accordo con la Cina?
“La scommessa di Bergoglio è che la Cina, a differenza del Giappone, sia culturalmente penetrabile perché connaturata nell’animus dei cinesi c’è l’esigenza di società “armonica” che, a sua volta, esige coesione. Quest’ultima si crea attraverso i valori. Atteso che l’ideologia per i cinesi è ormai un arnese obsoleto, qual è la religione in pole position? Non l’Islam perché elemento di rivendicazione della minoranza iugura nello Xinjiang che non si sente cinese. Non il Buddhismo per le stesse ragioni in Tibet. La religione che può giocare da fattore coesivo è il Cristianesimo. Su questo Bergoglio è disposto a giocarsi tutto. Lui non legge la condizione del cattolicesimo in Cina come protezione di una minoranza (15 milioni di fedeli). Piuttosto vuole convertire la Cina. Motivo per cui, ad esempio, il 5 luglio 2020, il Papa decise di non pronunciarsi sui moti di Hong Kong nell’Angelus, sebbene l’appello fosse già scritto nel discorso trasmesso alla stampa. La realpolitiksulla Cina e l’interesse geopolitico impone a Francesco il silenzio su Hong Kong. Lo stesso atteggiamento si riscontra nell’accordo sino-vaticano sull’instaurazione di relazioni diplomatiche ufficiali tra Roma e Pechino, il quale è sicuramente in perdita e penalizzante per il Vaticano, e che resta segreto perché altrimenti gli americani griderebbero che il Vaticano ha abbassato il capo alla Repubblica Popolare. Bergoglio si comporta con la Cina come il Principe Kalaf della Turandot di Puccini”.
Cosa resta di rilevante dell’incontro fra il Presidente Biden e Bergoglio? E perché quello con il Presidente Narendra Modi è stato più rilevante?
“L’udienza con Modi è stata più rilevante perché l’India si trova oggi sulla strada della “Laudato Si’” (Seconda Enciclica, 2015), la svolta verde di Papa Francesco. Difatti, se l’obiettivo geopolitico del Papa è andare a Oriente, l’obiettivo ideologico del suo Magistero è la salvaguardia del creato attraverso l’ambientalismo. Ora, in Oriente queste due direttrici confliggono perché Francesco si trova di fronte due popoli, India e Cina, che insieme rappresentano quasi 3 miliardi di anime, che non si amano, e che inquinano entrambi, smentendo così il suo Magistero. Dell’udienza con Biden resta un Papa che dice all’Occidente di dare tempo all’Oriente per colmare il gap fra i due, come testimoniato da “Fratelli Tutti”, e l’America che non può rinnegare il vantaggio strategico sulla Cina. Non c’è distinzione nella traiettoria statunitense solo perché è arrivata una presidenza democratica. C’è anzi una continuità tra Obama, Trump e Biden: il contenimento cinese, il “Pivot to Asia”. Vivendo in una società mediatica, siamo colpiti dall’aspetto caratteriale, ma le forze strutturali sono le stesse. Basti vedere l’iniziativa più aggressiva adottata in questo senso finora, l’AUKUS. Non è stato Trump”.

Come descriverebbe il cattolicesimo di Biden? E che impatto ha, se ce l’ha, nei rapporti fra il governo americano e la Chiesa oggi?
“La simpatia e il feeling con Biden si giustifica dalla volontà di Francesco di non perdere l’Impero d’Occidente. A sua volta, a Biden, non conviene perdere la Chiesa cattolica perché sono voti che andrebbero ai repubblicani. C’è quindi una convenienza reciproca, ma non confondiamo i legami di superficie, congiunturali, occasionali, con la deriva dei continenti di cui sopra, e che prosegue. Oggi Biden e Francesco non possono concedere all’altro più di quanto abbiano già fatto. Biden non riuscirebbe a tenere insieme la maggioranza del Partito Democratico. Per il Vaticano, se Bergoglio riorienta la Chiesa americana a sinistra, inserendo troppi Cupich (cardinale liberal di Chicago), il gregge passa con gli evangelici. L’importante per gli americani è rimanere americani e l’anima religiosa americana è conservatrice. Viceversa, la Chiesa tedesca è a sinistra, e se i vescovi tedeschi fanno troppo i conservatori, i fedeli passano con i protestanti. Per questo, io credo che l’unica ipotesi per la Chiesa del futuro sia un federalismo teologico, una Chiesa a geografie e teologie variabili”.
Come si districherà la questione di parte dei vescovi cattolici USA più conservatori e smaccatamente anti-bergogliani? C’è il rischio di uno scisma?
“Questo è un punto di disaccordo tra me e Lucio Caracciolo. Se per scisma intendiamo quello che ci racconta la Storia, e cioè la dichiarazione formale da parte di un pezzo di Chiesa che il Papa è l’Antipapa, con la conseguente scomunica, questo non è alle viste. Se parliamo di scisma nella sua versione materiale, di due mondi che procedono ognuno per conto proprio, questo è già operante e la posizione dei vescovi americani è di aspettare il prossimo conclave per giocarsi tutto. In questa epoca, lo scisma si manifesta in maniera diversa. Esempio: nel 2017 il Papa è in Colombia, e la stampa gli chiede un commento sull’uragano Harvey che sta devastando la costa meridionale degli USA. Egli risponde di rimettersi agli scienziati. Nelle stesse ore, Trump chiama tutti i pastori evangelici nello Studio Ovale e indice una giornata di preghiera nazionale. L’inversione dei ruoli è evidente. Il Presidente che si arrende alla forza della natura anziché trovare soluzioni pratiche, perché solo Dio ci può aiutare. E un pontefice che dice di non aver competenza, che Dio non c’entra. Il Papa che fa il Presidente e il laico che fa il religioso. E nella Storia quando inverti i poli magnetici, il mondo balla perché si crea uno squilibrio doppio: morale e umorale. Più scisma di questo!”.
Esiste la prospettiva di un Papa americano?
“No. Un papa americano c’è già stato, si chiamava Jude Law. Bisogna capire l’importanza che ha avuto geopoliticamente “The Young Pope”: se l’America ha dato così risalto al successo di Sorrentino è perché attraverso quella serie tv, l’America si è eletta il suo Antipapa, il cappellano della Presidenza Trump. Da un lato avevamo “Evangelii Gaudium” (Dio si conosce nella gioia), la prima esortazione apostolica di Papa Francesco. Dall’altro, Jude Law che diceva l’esatto contrario (Dio si conosce nel dolore). Le anti-frasi di Bergoglio. E quale Papa più funzionale agli evangelici di uno che dice che non dobbiamo più occuparci delle cose terrene, del sociale, ma dobbiamo guardare al Cielo, a Dio, allo Spirito? Perfetto per il capitalismo americano. Queste sono le Chiese del Cotton e del Corn Belt. Questi sono i predicatori americani”.

Qual è il dossier più scottante nei rapporti fra Papato e governo americano? L’apertura di una missione diplomatica vaticana a Pechino o la diffusione delle sette protestanti in America Latina, casa di Bergoglio?
“Il dossier più caldo resta la Cina. Qui c’è una complementarità perfetta in termini geopolitici che spiega l’attrazione irresistibile fra i due. Da un lato la Chiesa, universale nel suo DNA (“Andate in tutto il mondo!”), ha bisogno di arrivare in Cina per essere anche globalizzata. Dall’altro, la Cina, simbolo della globalizzazione, che senza il Vaticano non può farsi universale perché necessita della religione come instrumentum regni che generi soft power, la Chinese way of life. Nelle Americhe, c’è una guerra di religione in atto fra gli evangelici e i cattolici. Nel 2019 Papa Francesco indice il suo primo Giubileo a Panama, quell’istmo dove si incontrano due eserciti: l’esercito dei predicatori evangelici che scende a conquistare il Sud, e l’esercito di Bergoglio, dei migranti latinos, che sale a cattolicizzare il Nord. “Fratelli Tutti” spiega il contributo degli immigrati latinos nel cambiamento psicologico dell’America nel sociale. Insomma, il capitalismo americano si converte per via demografica. Ma a Wall Street o ai WASP democratici può piacere questo ragionamento? E a Biden può davvero piacere l’idea dell’ispanizzazione dell’America?”.
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