Non è questione di religione, anche se la religione (e in questo caso, la cattolica) è al centro di queste due vicende. Sicuramente non sono casi isolati, piuttosto sono spesso ignorati. Ignorati e tenuti nascosti. Pecunia non olet: se vale per l’imperatore Vespasiano che non si formalizza a istituire la centesima venalium sull’urina raccolta nelle latrine gestite dai privati, figuriamoci quando i ballo ci sono milioni di euro di commesse e di delicati equilibri politici, strategici ed economici. E spesso subentra un riflesso di impotenza, che ci fa dire: cosa possiamo farci? Quello che si può fare è prestare attenzione a queste vicende: cercare di farle conoscere, “illuminarle” il più possibile. Conoscere, sapere, è un poco che è già tanto.
Un tribunale pakistano condanna a morte un cristiano per blasfemia; un suo amico musulmano (e meno male che era un amico), lo denuncia dopo aver ricevuto inviato un messaggio su Whatsapp giudicato offensivo e blasfemo nei confronti dell’Islam. Si chiama Nadeem James, 35 anni. Lo hanno arrestato nel luglio del 2016; ora lo hanno condannato a morte. In realtà la storia sembra un po’ più complicata. L’avvocato di James nega che il suo assistito abbia inviato il messaggio: in realtà, dietro la denuncia, ci sarebbe il fatto che il cristiano aveva una relazione con una giovane musulmana. I fatti sono accaduti nella città di Sarai-Alamgir nel nord della provincia del Punjab.
La legge anti-blasfemia risale alla dominazione inglese, per evitare scontri religiosi nell’India britannica; negli anni ’80 varie riforme del regime militare del generale Mohamed Zia ul-Haq introducono l’ergastolo e la pena di morte in caso di insulti al “Profeta”, o profanazione del Corano. Anche se finora non è stata eseguita nessuna sentenza capitale, i casi aperti sono diversi, a cominciare da quello di Asia Bibi, la donna cristiana in carcere dal 2010. Diversi i casi in cui è bastata una denuncia, perché le persone fossero linciate dalla folla. L’ultimo caso è accaduto lo scorso aprile quando una folla di fanatici lincia un giovane universitario al termine un dibattito su temi religiosi.
Il caso di Asia Bibi è ancora più sconcertate: da oltre tremila giorni è in carcere. Pachistana, cattolica, arrestata nel 2009, è accusata di blasfemia da alcune musulmane del suo villaggio; dal 2013 è rinchiusa in una delle tre celle del braccio della morte del penitenziario di Multan. Con la sua sofferenza, e soprattutto con l’essere totalmente disarmata di fronte al sopruso e all’ingiustizia, la donna è il simbolo di una battaglia enorme che vale per il Pakistan e per tutti i cristiani perseguitati nel mondo non tanto per quello che fanno piuttosto per quello che sono. Dal 1990 a oggi, 65 pachistani sono stati uccisi in nome di una presunta «blasfemia». Nessuno è stato davvero portato al patibolo, ma almeno dieci degli assolti sono poi stati uccisi da estremisti islamici e delinquenti di diversa provenienza, in qualche caso sul portone dello stesso tribunale.
Il caso di Asia Bibi, non è più “solo”” la storia di una donna martirizzata, ma il simbolo di una battaglia di civiltà. Come si “giustifica” l’interminabile detenzione della donna? Con un paradosso: alla base vi sarebbe l’intervento della Corte Suprema che ha sospeso la condanna a morte emessa dall’Alta Corte di Lahore nel 2014: “segnale” di un tormento vissuto dalla classe politica e dal sistema giudiziario pachistani, che non vogliono mandarla sul patibolo, ma non hanno la forza o il coraggio di lasciarla libera, sfidando così le corpose e violente frange dell’estremismo.
Insomma, la donna sarebbe rimasta impigliata in un vero e proprio scontro di potere. Per Asia Bibi l’eventuale liberazione non sarebbe comunque sinonimo di libertà. Una volta uscita dal carcere non potrebbe tornare alla propria vita: dovrebbe lasciare il Pakistan con la famiglia, emigrare, inventarsi una nuova vita; restare nascosta, perché il fanatismo può arrivare ovunque. In ogni caso, perdersi, annullarsi. Come è “persa” e “annullata” là nella squallida cella di 2,5 metri per tre dove è relegata da tremila e più giorni.
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