“In Italia il tempo delle lauree come strumento di emancipazione sociale è finito. Il futuro è dei giovani laureati artigiani. Oggi è emancipato chi è realizzato. È tornato il tempo del fare, del produrre, del creare con le mani e vendere in tutto il mondo grazie ad una comunicazione efficace e all’utilizzo del web per promuoversi e costruire, raccontandola, una nuova epica dell’artigianato”. A sottolinearlo è Andrea Di Benedetto, Presidente dei Giovani Imprenditori CNA. Secondo i dati rilevati dall’Istat, infatti, emerge che oggi, almeno così è in Italia, la laurea, quel famoso “pezzo di carta” con cui un tempo ci si garantiva lavoro continuativo e di livello medio alto, non serve o meglio, serve poco per i giovani, e meno giovani, in cerca di inserimento nel mercato del lavoro. Da alcuni anni a questa parte l’Istat ha verificato una vera impennata nel numero di giovani laureati disoccupati e la tendenza è purtroppo tutta in crescita.
Il tasso dei giovani disoccupati ad agosto 2014 è stato del 44,2%, in aumento di un punto percentuale rispetto al mese precedente e di 3,6 punti nei dodici mesi. In totale, i giovani disoccupati sono 710.000. Dal calcolo sono esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, ad esempio perché impegnati negli studi. Non soltanto ci sono più giovani disoccupati, ma ci sono anche meno giovani che lavorano: il tasso di occupazione giovanile è calato al 15%, in calo di 0,5 punti percentuali su mese e di 1,4 punti su anno. I neolaureati disoccupati (e questo è quanto emerge dal XVI rapporto del consorzio interuniversitario che riunisce 64 atenei italiani, Almalaurea) sono il 26,5% di chi ha terminato la triennale, il 22,9% di quelli con laurea specialistica e il 24,4% di chi ha una laurea magistrale a ciclo unico.
È evidente, anche se molti ancora non l’hanno compreso (o forse non vogliono farlo) che non è più convincente cercare in singoli uomini politici dei capri espiatori: la responsabilità è di un’intera generazione politica, che forse cerca ora singoli responsabili già politicamente screditati, ma, soprattutto, di reiterare una certa concezione dell’economia ormai pienamente superata. Ma forse non ancora in Italia.
“Se c’è però un vantaggio del mondo del lavoro di oggi, così precario, così complesso è sicuramente rappresentato dalla lenta caduta di molte delle chiusure e dei preconcetti del passato. È così che vogliamo intendere il fatto che, dati alla mano, diversi laureati decidono di cambiare rotta per mettere le mani in pasta ed avviare una bottega artigiana. Così, due mondi da sempre separati, quello teorico dello studio universitario e quello pratico del lavoro manuale, arrivano a congiungersi, generando un magico mix di cultura, tecnica e passione: uno degli indubbi vantaggi della crisi, almeno di quella che stiamo vivendo”.
Questo è il concetto ribadito da Laureati Artigiani, un blog creato due anni fa dalla giovane giornalista Elisa Di Battista e nel quale vengono raccontate periodicamente le decisioni, le motivazioni di molti giovani che, dopo la laurea, si sono dedicati a un mestiere manuale, ad allenare il proprio “saper fare”.

Il laboratorio di Tacchi a Spillo.
La fiducia nel domani, la tenacia, la voglia di inseguire un sogno, sono le leve che hanno spinto, quattro anni fa, anche la giovane psicologa Carolina Cuomo ad intraprendere la sua carriera di “archigiana” della calzatura. Sì, a Carolina Cuomo piace definirsi “archigiana”, è un termine ibrido che coniuga perfettamente la dimensione della sua impresa, artigianale, e la sua vocazione di architetto nel pensare, disegnare su misura e realizzare il frequente oggetto del desideri di molte donne: potere indossare un paio di scarpe realizzate ad hoc secondo il proprio gusto.
Carolina Cuomo, 36 anni, vive a Sirignano, in Provincia di Avellino ed è laureata in Psicologia all’Università di Roma La Sapienza. Così come laureato alla stessa Università, ma in Informatica, è il fratello, quasi coetaneo, Michele, che, specializzato in programmazione videogiochi in 3D, ha deciso da qualche anno di andare a lavorare a Londra, una delle mete più ambite da molti giovani disoccupati, laureati e non, italiani. Adesso Michele è stato assunto da un’azienda inglese con un contratto a tempo indeterminato.
Il nebuloso e inquietante contesto italiano, a causa della crisi economica e dell'aumento del tasso di disoccupazione, ha creato una nuova migrazione giovanile verso il Nord Europa. Solo nel 2014 si sono trasferiti all’estero per lavoro circa 100.000 italiani.
Carolina dopo la laurea ha invece deciso di rimanere in Italia. Ha frequentato vari corsi di specializzazione come psicologa, ha iniziato poi a lavorare in diversi progetti avviati dalla Regione Campania, ma un giorno ha deciso di dare una svolta alla sua vita. Siamo andati a trovarla nel suo atelier-laboratorio artigianale di Sirignano e lì ci ha raccontato la sua svolta lavorativa.
“Da neolaureata in psicologia – racconta – ero inserita in alcuni progetti non avevo nessuna prospettiva, era molto precaria, mi pagavano in ritardo, ma questo è durato fin quando non sono finiti i soldi pubblici. Quello che soffrivo di più era però il fatto che vivevo un forte senso di inadeguatezza, ero quasi priva di identità lavorativa: questo genere di lavori così precari non ti arricchiscono umanamente anzi ti tolgono molto della tua serenità. Nel frattempo mi ero sposata ed avevo creato una famiglia con dei figli e quando svolgi un lavoro di tre mesi e non vieni pagata pensi davvero che ti stiano rubando il tuo tempo, rischiavo di invecchiare rimanendo sempre precaria. Nel 2009, però, mi ero iscritta alla Accademia di Moda di Napoli al corso di modellista per calzature; quella delle calzature, ed in particolare le calzature femminili, era una passione che nutrivo fin da piccola, ma che non avevo mai avuto il coraggio di intraprendere”.

L’atelier di Carolina Cuomo.
Carolina Cuomo rivive la sua esperienza di psicologa precaria e di “archigiana” della calzatura.
“La mattina andavo a lavoro e la sera frequentavo il corso dell’Accademia. Durante il corso ho avuto la fortuna di incontrare un professore che ha creduto molto in me e nelle mie capacità di disegnare; disegnavo soprattutto sandali. Ho iniziato a sperimentare nuovi modelli. Ho scoperto l’esistenza di un finanziamento regionale attraverso fondi europei con programma Invitalia. Così presentando un progetto dettagliato sono riuscita ad avere un finanziamento di 150.000 euro senza interessi, metà a fondo perduto e l’altra da restituire in 10 anni. Per me è iniziata una nuova vita, ho iniziato a lavorare a casa, ho allestito un laboratorio artigianale al quale ho dato il nome di Tacchi a spillo, ispirandomi al titolo di uno dei miei registi preferiti: Pedro Almodovar”.
Come è stato l’inizio di questa nuova attività in un settore a te sconosciuto?
“L’inizio della mia nuova attività non è stato facile, mi sono trovata in un settore che sconoscevo e non nascondo che ho avuto delle difficoltà. Era il 2010 ed alcuni grandi calzaturifici nell’area fra Napoli ed Avellino avevano chiuso, la crisi si faceva molto sentire. Come dicevo ho avuto difficoltà a reperire i giusti materiali anche per la mia inesperienza in un settore dove vi è molta gente furba che ti vuol vendere pellame non idoneo, macchinari difettosi etc. La gente pensava che avevo avuto quei soldi ed il mio fosse un gioco, qualcuno mi ha pure detto: “ma lo sai che ci vuole a fare una scarpa?”; qualcuno mi rideva in faccia quando dicevo cosa volevo fare mi rispondevano che si tratta di uno dei prodotti più rognosi e che con questo settore non c’entravo niente”.
Carolina ci ha descritto così l’esistenza fra i vecchi artigiani della calzatura di una sorta di “cazzimma”, quel modo tutto napoletano di fare, anche indirettamente, i propri interessi: dire e non dire come si fanno le cose per custodire gelosamente saperi e mestieri. Molte tecniche infatti vengono celate da chi da anni, o attraverso più generazioni, è del mestiere.
“Ho potuto osservare – dice Carolina – anche il malumore di molti artigiani i cui figli non hanno continuato il loro mestiere tramandato magari dal nonno al loro padre e mi sono dovuta confrontare con un mondo produttivo prettamente maschilista: le donne per tradizione si occupavano delle orlature e decorature e lo facevano per lo più in casa e non in fabbrica, figuriamoci quale era l’opinione di me quando dicevo che ero pure laureata. Tutti si chiedevano quale mestiere potevo avere io che non avevo alle spalle generazioni impegnate nel settore delle calzature, e in effetti era anche vero dato che i miei sono stati insegnanti. Ma questo è stato un bene, perché non avevo preconcetti, ma partivo dalla mia creatività. Il mio è stato un percorso a ritroso per migliorare il mio stile, la produzione di scarpe su misura. Così ho dovuto capire da me, sulla mia pelle, per utilizzare una metafora, come produrre e sperimentare nuovi modelli: insomma ho applicato in questo campo la tecnica del problem-solving che aveva studiato nel mio percorso di studi universitari”.
Superata questa prima fase, hai cominciato ad avere le prime soddisfazioni?
“Inizialmente producevo 10 paia di scarpe alla settimana, sempre su misura e richiesta. Sono stata cercata anche da un negozio che ha chiesto un campionario. Io invece volevo lavorare sulla personalizzazione, sul pezzo unico. Ho ricevuto molte richieste fin da l’inizio per quanto riguarda scarpe per spose. Ma tutto ciò si è dimostrato poi un fuoco di paglia, al quale è seguito un ridimensionamento delle richieste. Il vero start-up è avvenuto da pochi mesi: ho affinato le tecniche di produzione, mi sono approvvigionata di macchinari più all’avanguardia e che migliorano la qualità della produzione. Adesso lavora con me, in pratica da socio, un ragazzo di 37 anni, figlio di un grosso fabbricante di scarpe che aveva chiuso i battenti con l’avvento della globalizzazione considerata la spietata concorrenza di altri mercati, come quello cinese”.
Avete apportato dei miglioramenti alla organizzazione del laboratorio artigianale?
“Si, abbiamo allargato il portafoglio-clienti producendo calzature personalizzate su misura, sia per uomo che per donna, stiamo collaborando con ateliers per abiti da cerimonia e sposa e stiamo curando delle piccole produzioni per l’estero, grazie alla partecipazione a fiere specialistiche e ad internet. Siamo una micro azienda composta da quattro persone. Io mi occupo delle relazioni con la clientela, del marketing e dello studio stilistico e modelleria, il mio socio, Giovanni, segue tutte le fasi tecniche della lavorazione a partire dal taglio, poi sono con noi una orlatrice ed un premontista-suolatore. Manteniamo la dimensione artigianale, producendo una scarpa di qualità con attenzione a dettagli ed accessori, ma coinvolgendo anche altri artigiani esterni per la lavorazione delle pietre e dei materiali riciclati, per esempio”.
Come vi state muovendo sul mercato, vi sono prospettive verso mercati esteri?
“Il settore calzaturiero in questi anni si è ridimensionato a partire dalla manodopera e ciò perché non si possono sostenere più alti costi, quindi si va verso l’artigianato per sostenere i costi dell’azienda e tenere alta la qualità. In questo contesto il valore aggiunto è, ovviamente, la creatività, e la capacità di fare marketing con l’utilizzo delle nuove tecnologie, internet, e-commerce, social networks. Pensiamo anche agli smartphone di nuova generazione che consentono di acquistare con una semplice applicazione. Ho iniziato a guardarmi intorno, rivolgendo ancor più il mio interesse verso le innovazioni per far conoscere il mio prodotto e la mia arte sfruttando soprattutto il mio sito www.tacchiaspillosas.it. Ad esempio, grazie al blog Laureati Artigiani di Elisa Di Battista mi ha contattata un imprenditore californiano di origini italiane interessato alla nostra produzione di qualità; è venuto a visitare il nostro atelier e non escludo che ci possa essere la possibilità di uno sbocco anche nel mercato americano”.
Insomma adesso guardi al futuro con nuovi occhi…
“Mi sono tolta un po’ di debiti, alcune notti infatti non riuscivo a dormire, adesso sono tranquilla vedo che il lavoro non manca mai, anzi vi è una crescita di richieste. Quello che più mi dà soddisfazione e mi fa guardare al futuro con grande fiducia è il fatto che abbiamo creato un gruppo di lavoro con un grande clima di collaborazione, cresciamo tutti insieme”.
La storia di Carolina Cuomo, “archigiana” delle calzature, è uno degli esempi di come oggi in Italia (era successo anche nel secondo dopoguerra) moltissimi giovani, anche grazie alla crisi, stanno reagendo e riscoprendo la bellezza del fare e del crearsi un lavoro con le proprie mani. Si può ben dire che, ancora una volta, il futuro, e non solo in Italia, è la riscoperta dell’artigianato dove il lavoro non si cerca, si crea. Lo profetizzava già alcuni anni fa Philip K. Dick nelle sue opere visionarie dove spesso il protagonista era una sorta di artigiano, abilissimo nel costruire o riparare le cose.