Quando l’Italia, con Parigi e la Spagna, erano un mito per i grandi narratori e artisti americani, prima che “la Merica” divenisse il mito degli Italiani. Eppure oggi, durante il furore della pandemia, i waps di Pittsburgh si danno pensiero di abbattere la statua bronzea di Colombo opera di Frank Vittor e la impacchettano in attesa della decisione, come una performance del maestro Christo, proprio quella città che ha investito capitali nell’ISMETT, ospedale di eccellenza dei trapianti a Palermo, promosso dal chirurgo Ignazio Marino (650 trapianti), ora docente a Philadelphia.
Avevo diciotto anni quando nel 1957 fu proiettato al Supercinema di Palermo (oggi libreria Feltrinelli) un remake, già celebre nel 1932 interpretato da Gary Cooper con regia di Frank Borzage, ma allora reso ancor più famoso dal nuovo cast. Conservo ancora in qualche parte la cartolina – poster, avuta solo allora con impressi i volti di Rock Hudson e Jennifer Jones. Si trattava di Addio alle armi, tratto dal romanzo A Farewell to Arms di Ernest Hemingway, uscito nel 1929. Sulla falsariga della versione teatrale di Laurence Stallings era stato rielaborato da una squadra di eccelsi sceneggiatori quali Ben Hecht, Pier Paolo Pasolini e Cesare Zavattini.
Fu il capolavoro del grande produttore David Selznick, e prova eccelsa di eccelsi registi, Charles Vidor, John Huston ed Andrew Marton. Nel cast anche oltre ai divi statunitensi il fior fiore degli attori italiani, da Vittorio De Sica, candidato all’Oscar, ad Alberto Sordi, Franco Interlenghi, Memmo Carotenuto ad Umberto Spadaro, per citare i sommi. Sotto le vesti del giornalista Frederick Harry narrava la sua esperienza autobiografica come autista di ambulanza della ARC (American Red Cross) presso il lanificio Cazzola a Schio, sotto il Pasubio, negli ultimi mesi della Grande Guerra intorno agli anni del disastro di Caporetto.
Ferito e salvato con la vita di un soldato italiano e decorato con medaglia di argento al valor militare, il tema della guerra si idealizza in un ospedale di Milano nel suo amore per l’infermiera americana Agnes von Kurowsky, la deliziosa Kitty del romanzo, sul modello alla Kipling o alla Hadley, “angelo del focolare” con la quale in Svizzera sperimenterà la magia dell’amore e la tragedia della sua morte per parto. Forte è anche il tema della condanna della stupidità umana della violenza, esecrata dall’amico Rinaldi che perciò è condannato alla fucilazione, la scoperta degli orrori della guerra come giovinezza perduta.
La sua reale esperienza italiana si era conclusa sul fronte di Bassano del Grappa alla fine del 1918. Fu il successo mondiale che rinnovò quello dell’uscita del romanzo, capolavoro assoluto per quegli anni della letteratura mondiale.
Era stato quello un periodo eccezionale della letteratura statunitense, a ragione poi definito i “ruggenti anni Venti” o anche età del jazz. Ma fu anche la Lost Generation altro simbolo Francis Scott Key Fitzgerald con This Side of Paradise (1920) e il geniale Il grande Gatsby (The Great Gatsby, 1925).
Su questa letteratura tanti giovani avevamo formato le nostre ossa, prima che nell’Italia del secondo dopoguerra ci coinvolgesse quell’ondata culturale della “narrativa dell’impegno”, con i narratori dell’epopea della Resistenza e della Liberazione. E furono questi autori intorno al 1930 a portare alla ribalta quella eccezionale fioritura, unica nella storia americana. Furono gli “americanisti”, Cesare Pavese che aprì il sipario sul mito americano, e soprattutto il siciliano Elio Vittorini con la sua antologia Americana (1941) che la additò come modello di spontaneità, di “implicitezza”. La scure della censura del regime fascista si abbatte su questo sogno, pur con la mediazione revisionista di Cecchi che vide tale letteratura come “una sorta di figlio degenere” di quella inglese.
Il romanzo fu vietato dal regime fascista fino al 1945, perché lesivo dell’onore delle Forze armate per la descrizione della disfatta di Caporetto e per la diserzione del protagonista. Fernanda Pivano che ne aveva fatto una traduzione clandestina fu arrestata a Torino nel 1943. Fu lei a svelare l’ambiguità di ‘arms’ proponendo Addio alle braccia, come fine di un amore e di addio alla giovinezza perduta.
Era stata quella letteratura la base dell’educazione sentimentale e culturale della nostra generazione. Già nei miei anni del Liceo, come tanti altri, mi abbeverai a questa fonte e ne venni travolto e conquistato, io studente di Liceo classico e poi di lettere classiche. Fu complice la biblioteca comunale della Corleone del padrino, diretta dal mio prof. Giuseppe Spatafora, cugino dell’ambasciatore Marcello a Washington e poi rappresentante permanente d’Italia presso le Nazioni Unite, che incontrai in una serata di gala a New York. Furono gli anni della scoperta di una nuova frontiera quella della Via del tabacco di Erskine Caldwell, di Uomini e topi (Of Mice and Men) di John Steinbeck (1937), ma soprattutto l’epopea di Furore (The Grapes of Wrath). Questa iniziazione proseguì con l’altra grande biblioteca dell’USIS (United States Information service) di Palermo e con la sua rivista, tra servizio segreto e propaganda, per me strumento di formazione.
Certo Hemingway (1899-1961), il Papa, la fece da protagonista con la sua vita eccezionale, parigino ma aperto al mondo e all’avventura, come egli mi apparve dall’incompiuta Festa mobile, come la sua tragica vicenda della depressione e della canna del fucile in bocca. Premio Pulitzer e Premio Nobel, l’ho seguito fino alla postuma Isole della corrente del 1970, da E il sole sorge ancora (Fiesta) del 1946 con l’avvincente festa di Pamplona, Per chi suona la campana del 1946, tradotta da Maria Martone, moglie del grande giornalista palermitano Giangaspare Napolitano, e la sua nuova esperienza militare durante la guerra civile spagnola, alle Verdi colline d’Africa del 1948 (sconvolgenti safari La breve vita felice di Francis Macomber e Le nevi del Chilimangiaro del 1953-54), al memorabile Il vecchio e il mare.
Il 1° giugno 2020 il New Yorker ha pubblicato un suo racconto inedito, Pursuit as happiness, con una intervista al nipote che lo incluse nell’edizione Il vecchio e il mare. Tra autobiografia e invenzione sviluppa il tema della pesca con l’Anita, di proprietà di Mr. Josie, cioè Joe Russell, amico e compagno di pesca per dodici anni. La vita a terra durante le rivolte del 1933 contro la dittatura di Gerardo Machado, contrapposta alla felicità struggente della pesca in mare. Tra le carte lasciate all’amico Josie prima di partire nel 1940 per Cuba c’era anche il manoscritto, The Passing of Pickles McCarty (o The Woppian Way).
Attraverso tortuosi passaggi giunse a Giovanni Cecchin che lo tradusse e pubblicò come “La scomparsa di Pickles McCarty”. Protagonista Neroni, sfigato aspirante pugile italo-americano di contorno che fa una travolgente e inattesa carriera, ma viene stritolato dalla guerra sul fronte italiano con i reparti di assalto degli Arditi. A narrare la sua vicenda è Scribe, per dire scribacchino, giornalista nel Servizio Ambulanze di Bassano. Scritto nel 1919 durante le prime avvisaglie di insonnia, incubi e ubriacature, prima storia di boxe, è ambientata in una «vecchia villa sul fiume», come l’incipit di Addio alle armi la tenuta di Ca’ Erizzo a Bassano del Grappa, dove era di stanza la Sezione Uno della Croce Rossa americana.
Qui mi fermo nell’evocazione di una vita inimitabile, essendo mio intento riferire solo il suo contributo fino all’azzardo della vita per la causa italiana, comunque oggi si voglia leggere quella pagina discutibile dell’interventismo contro l’Austria che in cambio della nostra neutralità ventilava la cessione di quelle terre. Ma esso rientra ancora nell’epica delle Guerre di Indipendenza, come acquisizione dei territori cosiddetti irredenti. Conclusione la propaganda della “vittoria mutilata”, nata dalla grande crisi economica che sarebbe stata l’arma della rivincita con il regime fascista.
Qui voglio concludere, per dare un’idea del fascino di questa liberazione dal piede straniero, la presenza di un altro fascinoso irregolare della letteratura americana, quel giovane radicale di Chicago, John Roderigo Dos Passos (1896-1970), anarchico, fervido difensore delle nostre due vittime del razzismo (Facing the Chair. Story of the Americanization of Two Foreignborn Workmen,1927), prima che per le idee politiche professate, Sacco e Vanzetti, riabilitati solo nel 1977, cinquant’anni dopo, dal governatore del Massachusetts Dukakis che dichiarò che il processo fu “permeato dal pregiudizio” e da “seri dubbi sull’imparzialità dei giudici”.
Rimandando ai suoi capolavori (This Side of Paradise, Manhattan Transfer del 1925, The 42nd parallel, 1919, The Big money e la trilogia Columbia sulla guerra civile spagnola) rivolgo la mia attenzione all’opera di esordio del 1920, One Man’s Initiation – 1917 (sul tema Three Soldiers del 1921). Allo scoppio della Grande guerra anche lui prestò servizio da volontario sul fronte italiano, come autista di ambulanza della Croce Rossa Francese e poi nel corpo sanitario statunitense. La coincidenza è sorprendente, perché anche a lui questa esperienza ispirò un romanzo.
Diversamente da quell’ombra di amore e morte che si è vista nella biografia di Hemingway la partecipazione di Dos Passos si vuol posizionare in altro ambito e con altre finalità già dal titolo L’iniziazione di un uomo. Qui il progetto programmatico è la denunzia della tragedia della guerra, i bombardamenti e le esplosioni, l’odore puzzolente di cadaveri insepolti, le ferite infette fra uomini immersi nel fango, unica salvezza l’amicizia, nata per necessità e senza futuro. Certo la narrazione è asettica e non coinvolge emotivamente, come se fosse vista da occhio esterno.
Eppure l’autore visse quei bombardamenti e trasportò feriti al pronto soccorso sul fronte occidentale. Scopo preponderante fu la condanna della guerra, ma come ricerca dei fomentatori, in linea con il marxismo leninismo e la rivoluzione d’ottobre. Per lui di famiglia agiata la colpa era dell’industria e della finanza, del capitalismo e solo con la sua sconfitta si sarebbe potuta raggiungere l’uguaglianza sociale. Il tutto si risolveva nella fede e nella retorica di una soluzione che sarebbe comunque arrivata a risolvere i conflitti di classe. Alla luce della realtà odierna del dominio assoluto della finanza e delle multinazionali autonome e fuori di ogni diritto internazionale possiamo valutare il semplicismo della distopia di Dos Passos.
La sua descrizione disillusa di quelle atrocità sul fronte italiano rendono comunque, anche se con altri scopi, l’insensatezza di quella guerra risolvibile con trattative, di tutte le guerre che oggi non sono più mondiali, ma con infiniti focolai coinvolgono il globo, nell’antitesi tra gruppi di potere economico, ormai senza lo straccio di una ideologia. Come avvenuto in tutta la storia delle guerre, a cominciare da quella per una donna, Elena, solo immagine per Euripide che la ritrova in Egitto, alle infinite crociate di religione, fino ai giorni nostri.