19 marzo, San Giuseppe, onomastico e compleanno di Pino Daniele, che oggi avrebbe compiuto 66 anni, 10 più di me. Da tempo voglio scrivere di Pino e a Pino, ma mi viene difficile perché per me non è solo il grande artista che ha fatto la rivoluzione della musica napoletana e mediterranea, incrociandola con le radici e le tendenze afro americane, lui è anche il mio “maestro” di musica e chitarra, come credo lo sia stato e rimanga per molti altri amanti delle sei corde.
Ma andiamo con ordine…
1979, faccio il primo liceo. Gioco ancora tanto a pallone e insieme alla polvere e alla pioggia degli allenamenti sento arrivare dal mare il profumo di quella meravigliosa brezza, anticipo di tempesta ormonale, mentale ed emotiva che chiamiamo adolescenza.
Il mio caro amico e compagno di classe Enrico decide di studiare chitarra classica e così, esattamente come quando ti presentano un’amica che può cambiare per sempre il tuo futuro, conobbi e presi per la prima volta fra le mani la mia nuova compagna di vita, la chitarra.
Sarà per le sue forme da femmina o per la mia timidezza con le ragazze, la chitarra diventa passione, intrigo, complicità e soprattutto musica e canzoni. Musica, ovvero ritmo, canto, accordi, assoli, sound. E canzoni, ovvero parole, rime, poesia, voci, profondissime e ribelli, italiane e inglesi, ruvide e forti, dolci e libidinose, voci dell’adolescenza.
Imparo il giro di do e quattro accordi d’inverno, come fanno tutti i chitarristi per prepararsi al debutto estivo sulle spiagge, attorno ad un falò guardando al centro la bottiglia ruotare in cerca di un bersaglio. Imparo anche l’armonica a bocca perché quelli sono i tempi in cui Bennato prende in giro docenti e potenti, indicando la direzione giusta dei sognatori e degli eterni Peter Pan: “Seconda stella a destra, questo è il cammino…”. Io suonavo e gli altri cuccavano, ma questa è un’altra storia…
Mentre imparo i nostri Battisti, Dalla, De Gregori e qualcosa dei Beatles e Dylan per fare quello che il 68 lo conosce, sento alla radio “Je’ so’ pazzo” di Pino Daniele. Se l’incontro con la chitarra fu la donna, adesso avevo incontrato il sacerdote, e fu matrimonio per sempre.
Fu davvero amore a prima vista e fu soprattutto educazione musicale continua e insaziabile. Mi piaceva già il blues e la musica nera, mi piacevano i gospel e i musical di Broadway, ovviamente amavo i nostri cantautori e ammiravo la loro rivoluzione, ma man mano imparavo a distinguere i miti dai maestri. I miti ti avvicinano al cielo, i maestri scendono a prenderti sulla terra o sul mare, dove vivi tu. E se vuoi, se ti impegni, se ti alleni, ti portano anche loro in cielo.
Pino ha fatto questo con me e certamente con migliaia di altri chitarristi, ha portato qui note nuove e però conosciute, scale miste fra Napoli ed Harlem, e soprattutto sigle di accordi sconosciute nelle notti da spiaggia, accordi neri. Neri a metà. È andato in giro ad ascoltare, partendo proprio dalla Napoli americana, quella del porto frequentata dai militari delle basi NATO, a cui chiedeva “Nu poche ‘e dollars” in cambio di consolazione: “Ue man… you need a girl tonight…”.
Sono troppe le canzoni che vorrei citare ma è stato già scritto e detto tanto e bene sulla sua capacità di vivere e raccontare Napoli, e più ancora la Grande Madre Africa, come bisogno di radici comuni a cui ritornare per andare avanti. La grande rivoluzione di Pino è proprio in netto anticipo sul concetto “glocal”, come ameranno dire poi gli uomini di marketing. Locale ma globale, insomma tutti uguali perché diversi: napoletani ma newyorkesi, marocchini ma milanesi, cocktail cola e rum nero. Nero a metà, come il sax di James Senese.
Mi fermo su quest’album perché resta quello che più mi ha fatto da maestro.
È il terzo album di Pino, quello della svolta definitiva, 1980. La mia adolescenza incrocia e abbraccia le lezioni di filosofia che per fortuna non danno risposte ma agitano domande. E il connubio è virtuoso perché più crescono le domande più canzoni e accordi si imparano.
Ricordo di aver letto in una biografia di Paul McCartney di quando ragazzini, lui e John Lennon, alle prime schitarrate, correvano da una parte all’altra di Liverpool per andare a trovare un amico che sapeva come si faceva il Si settima.
Beh, se è successo a loro, può succedere a tutti, e infatti io a quel tempo andavo al negozio Ricordi per “rubare” gli spartiti di Nero a Metà. Rubare educatamente, s’intende. Sfogliavo lo spartito senza guardare le note, non le sapevo leggere e non mi servivano; poi fissavo lo sguardo sulle sigle complicate, come fa major 13 o accordi di nona; come uno scanner fotografavo nella mente due o tre pagine alla volta, poi scappavo a casa e scrivevo subito gli accordi, cercavo di capire come si facevano, accendevo lo stereo e.. vai, proviamo se viene.
E la voce di Pino mi entrava in testa con le sue parole, aprendomi alle dissonanze, ai ritmi latini e al fraseggio blues, in maniera naturale e immediata, senza complicazioni teoriche che avrei capito anni dopo. Con Pino mollo per sempre il plettro e decido che preferisco suonare con le dita, non come un chitarrista classico, ma come un chitarrista di spiaggia che suona piano, appena appena, quanto basta per la notte, quando si rimane in pochi o anche da soli col mare.
Dentro Nero a metà c’è la mia canzone preferita di Pino. Se proprio devo sceglierne una è lei, Alleria.
L’introduzione da sola è già silenzio, ascolto interiore. Basso e pianoforte si rincorrono incastrandosi negli attimi di tempo che sembrano non voler finire, non importa chi guida e chi accompagna, l’importante è andare. Poi però, come il senso stesso della nostra vita, anche l’intro rallenta, prende fiato e lascia il posto a un delicato attacco. E d’istinto ascoltiamo qualcosa che già sappiamo… “Passa ‘o tiempo e che fa? Tutto cresce e se ne va…”
Quante volte facciamo i bilanci?
Nel 1980 Pino ha appena 25 anni, eppure guarda indietro, ripensa ai tanti sacrifici, al valore stesso dei ricordi, che sono tanto più forti quanto fugaci. L’alleria non ha età, è dolce e triste insieme, una felicità vestita di malinconia, ancora una volta è la vita nera a metà. E ciò che le parole rendono freddo e umido la musica riscalda, e la voce di Pino saglie, come la sua voglia d’alluccà, strillare che tu non c’entri niente, proprio tu, che stai ascoltando, tu volevi solamente dare, vivere, amare…
A 25 anni appena, Pino guarda il futuro non fidandosi, sapendo che qualcosa cambierà, forse la sua voce? Non sapeva allora che sarà il suo cuore purtroppo a cambiare e fermarsi prima del tempo. E certo, pur riconoscendola sempre, anche la sua voce cambierà, come cambieranno i suoi versi, i suoi incontri straordinari e internazionali, le sue chitarre, i suoi palchi, i suoi umori e i suoi pensieri. Pino Daniele è stato senz’altro un musicista che ha fatto della musica stessa incontro continuo e sperimentazione, come pochissimi altri.
Eppure una cosa l’ha sempre portata con sé, in ogni sua avventura, la sua alleria. Sospesa fra la gioia di una giornata di sole e la fregatura di una tazzulella ‘e caffè, l’alleria permette a Pino di crescere sommamente come musicista restando sempre un “lazzaro felice”, di guardare il mondo con gli occhi di chi conosce il mare e non s’illude sapendo che “Chi tene ‘o mare ‘o ssaje nun tene niente” e allo stesso tempo col cuore di Masaniello, che tutti i giorni canta contro i potenti, perché non solo è pazzo ma è anche blues e quindi “Tengo ‘a cazzimma e faccio tutto quello che mi va, pecché so’ blues e nun voglio cagnà”.
19 marzo, nel segno dei pesci. Segno doppio, fra l’inverno e l’estate per annunciare il tempo del divenire, la primavera. Sarà un po’ malinconica, ma sarà anche felice, piena di vita, e soprattutto… “Passa ‘o tiempo ma tu non cresci mai”.
Ecco, Pino è stato ed è tuttora la mia primavera musicale, maestro in quanto aria e vento di crescita, che ovviamente non si ferma solo alla musica ma soffia su tutto ciò che suona e risuona nella mia vita. Preferisco la parola divenire al cambiamento, proprio perché sento che in fondo in fondo passa il tempo, sono un po’ più saggio, conservo gioie e fallimenti e anche i capelli si fanno neri a metà, ma sono sempre io, in cerca di nuove note da mettere insieme.
Grazie di tutto Pino, grazie a nome dei tanti amici e fratelli chitarristi che hanno imparato con te a parlare inglese con la chitarra, con sigle e accordi neri, ma anche che con quattro semplici accordi si può scrivere Napul’è. È questione di orecchio e ascolto, per tutto il profondo che ci sta attorno. Auguri per questo tuo giorno in cui sei nato e per il santo a cui è dedicato questo giorno, di cui porti il nome. Da poco ti ha raggiunto il tuo amico Chick, non oso immaginare la sera dopo cena e col vino ancora nel bicchiere, tu alla chitarra e lui al piano. Si usa anche lassù il falò o vi sedete attorno alla luna?
A proposito, come sai ultimamente faccio un po’ fatica la notte a prendere sonno. Sta arrivando la primavera, una di queste notti di luna chiara me la suonate Sicily? Con Alleria, ovviamente.
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