L’estate andavamo in vacanza ad Ostia. I miei genitori prendevano in affitto tutti gli anni lo stesso appartamento. La palazzina a tre piani ricoperta da un luminoso mosaico azzurro si trovava sulla piazzetta davanti allo stabilimento balneare Belsito, quello in cui andavano noi.
All’epoca ero il più magro e piccoletto di tutti i ragazzini della spiaggia e il primo giorno in cui mettevo piede sul litorale uno dei ragazzi più grandi mi faceva sedere in terra, mi afferrava saldamente per le gambe e poi mi trascinava sulla sabbia, mentre la forma del mio sederino andava a tracciare il circuito della pista, quella su cui avremmo poi fatto correre le nostre palline di plastica, con all’interno la foto dei ciclisti dell’epoca.

A tale proposito ricordo di aver fatto più volte a botte pur di assicurarmi la biglia con raffigurato il mitico Antonio Pambianco, maglia rosa del Giro d’Italia del 1961, mentre agli altri toccavano invece in sorte le palline di Anquetil, Gaul e Van Looy. Giocavamo concentrati al massimo per tutta la mattina, abbandonando l’impegno solo per qualche tuffetto ristoratore oppure per guardare stupiti il barcone che arrivava verso le undici, con il furbo marinaio che prometteva un giro per pochi spicci.
“Un favoloso giro a mare per sole trenta lire. Salite, signo’. Salite!”, gridava dentro al megafono e dopo un po’ la barca si ritrovava così piena che avevamo tutti paura che affondasse da un momento all’altro, mentre i venditori ambulanti di aquiloni e di cocco fresco passavano sulla spiaggia, offrendo i loro prodotti. “Cocco bello!!!”
Ogni tanto spariva qualche ragazzino e le mamme dovevano andare a cercarlo, in giro per la spiaggia. Ogni tanto qualcuno si ustionava e si avvolgeva sotto gli asciugamani, sembrando una specie di mummia egiziana. E ogni tanto qualche bella signora allegra osava slacciarsi il pezzo superiore del costume da bagno, per prendere il sole sulla schiena. “Copriti che sta arrivando tuo marito”, consigliavano in fretta le amiche.
All’ora di pranzo mangiavamo sul tavolino di legno davanti alla porta d’ingresso della cabina. Mia madre apriva il cestino di vimini e iniziava a tirare fuori tovagliette di carta, bicchieri e alimenti vari. Ricordo ancora oggi il meraviglioso sapore delle pennette al pomodoro appena tirate fuori dal grande thermos di plastica. Erano fredde, scotte e tutte appiccicate, ma a me sembravano davvero squisite, potenza della fame e non le avrei mai scambiate con i supplì croccanti che si stava mangiando il bagnino Picchio, seduto sullo sgabello a due passi da noi.
Dopo pranzo, naturalmente, c’era l’obbligo del riposino all’interno della cabina, stesi sopra ad un vecchio lettino pieghevole. Il caldo era davvero infernale e, con il sudore che calava da sotto le ascelle, ci si potevano cuocere tranquillamente due o tre chili di risotto. Per non parlare dei deficienti che facevano la partitella a calcio del dopo pranzo, sparando violente pallonate contro i pannelli di legno della cabina che mi facevano sobbalzare come se, invece di calci al pallone, quelle fossero state autentiche bordate della contraerea nemica.
Ma poi arrivava la sera del sabato. E quella sera mi ripagava sempre di tutto il caldo forzato e di tutte le pallonate di questo mondo. Perché la sera del sabato c’era l’Arena Cucciolo e io non potrò mai e poi mai dimenticare quelle cigolanti poltroncine di ferro, il gigantesco lenzuolo tirato sul muro al posto dello schermo, i fidanzati che pomiciavano appassionatamente nelle ultime file, le bande di ragazzini rumorosi e con le mani unte di patatine che si rincorrevano gridando e spernacchiando nel corridoio centrale, la maschera del cinema con la torcia elettrica puntata sul vassoio di legno colmo di mostaccioli, gazzose, lupini, more e caramelle colorate. E, naturalmente, non potrò mai dimenticare quel lurido signore ciccione con la pancia di fuori che continuava a bere fiumi di coca cola e, subito dopo, esplodeva devastanti rutti che facevano sobbalzare le due povere vecchiette sedute davanti a lui.
Poi, all’improvviso, calava il silenzio, perché iniziava lo spettacolo. E allora tutti restavamo lì a bocca aperta, a ridere con le divertenti commedie di Alberto Sordi e Vittorio de Sica oppure a galoppare nella prateria insieme a John Wayne e Glenn Ford. E io ero lì, gli occhi fissi verso lo schermo, come tutti gli altri spettatori. Sapevo che se invece quegli occhi li avessi puntati verso terra, avrei visto un desolante tappeto di cicche spente, bottiglie di vetro, gomme americane e bucce di semini mangiucchiati
Però sapevo anche che quegli occhi, se li avessi invece indirizzati verso l’alto, avrebbero inquadrato uno spettacolare cielo pieno di stelle luminose e di nuvolette bianche che passavano leggere davanti alla luna, come tanti piccoli e promettenti sogni verso il futuro.