Nel dicembre del 1978 io e i miei due amici Andrea e Danilo decidemmo di fare un viaggio in California. Perché proprio lì? Beh, forse perché avevamo sentito troppe volte quel famoso disco dei Mamas and Papas, tradotto poi dai Dik Dik, con il titolo Sognando la California. Oppure perché pensavamo di andare verso il sole, come fanno gli uccelli che d’inverno emigrano verso il Sud. E comunque, chi se lo ricorda più il perché?
Lavoravamo già tutti e tre. Io avevo iniziato a scrivere testi per la Rai, insieme a Serena Dandini. Facevamo un programma radio dal titolo Professione Jazz, coordinato dal mitico Adriano Mazzoletti. Erano in pratica dei lunghi originali radiofonici a puntate sulla vita dei grandi del jazz, che venivano realizzati nella sede Rai di Torino, con l’impiego di una dozzina di attori.
Gli altri due miei compagni di viaggio in America, invece, erano giovani giornalisti dal radioso futuro, uno a Il Messaggero e poi al Corriere della Sera, l’altro all’Ansa. Detta così sembra quasi che fossimo tre ragazzotti pieni di soldi, invece, come si dice a Roma, manco per niente. Gli introiti erano davvero bassini e per fare quel viaggio, dovemmo attrezzarci molto bene. Il costo più alto, naturalmente, fu quello dell’aereo per San Francisco, allora linea diretta, senza scalo, con l’Alitalia. Il dollaro, per noi italiani, era a un cambio davvero spropositato. Così, per l’albergo, ci arrangiammo in un pidocchietto a due stelle che si chiamava Olympic Hotel, in Mason Street, vicino a Union Square. Scegliemmo una stanza per tre e ci rifilarono invece una camera per uno, con due letti aggiunti e materassi tipo sottilette al formaggio. Il bagno era nel corridoio e dovevamo dividerlo con tutti gli ospiti del primo piano che erano parecchi. A volte, per espletare i propri bisogni, bisognava fare una fila interminabile, dietro a gente in mutande o in accappatoio. Però eravamo a Frisco, in fondo che cosa ci importava di un po’ di disagio?
Vagavamo per le strade, in mezzo a nuovi e vecchi hippies, in un’atmosfera un po’ retrò che ci piaceva moltissimo. Vedevamo quella città come se, invece di stare in America, stesse in mezzo all’Europa, tra Vienna e Berlino, Londra e Parigi. Tra tutte le città americane che ho visto nella mia vita, quella è l’unica in cui ho pensato che avrei anche potuto viverci. Non c’era l’ansia della gente, i tempi veloci di New York, la smania di fare e di arrivare. “Ma arrivare dove?”, sembrava si chiedesse la gente. C’era spazio per l’arte, la musica, la letteratura, i caffè dove sedersi per un intero pomeriggio a leggere un libro oppure a bere caffè lunghi e un po’ insapori. Dovunque c’era gente che suonava e che cantava, altri che danzavano in mezzo alle piazze o improvvisavano performance di vario tipo e giochi di prestigio. C’erano mimi eccezionali e perfino clown e ventriloqui.
Andavamo nel quartiere South of Market, meglio conosciuto come SoMa, dove la maggior parte degli abitanti erano blue collar, cioè membri della classe operaia. Oppure passavamo sulla sponda opposta della baia, a Berkeley. Ci sedevamo sul bordo della fontana fuori dall’Università, come aveva fatto Dustin Hoffmann ne Il Laureato, per aspettare la figlia della signora Robinson, Katherine Ross. Però con noi non si fecero vive né la bella e giovane attrice destinata a girare poi Butch Cassidy and the Sundance Kid con Robert Redford e Paul Newman e neanche la signora Robinson, ovvero Anne Bancroft, moglie di Mel Brooks. Al loro posto arrivarono invece dei ragazzi con un pallone da calcio che ci invitarono a giocare su un campo regolamentare in erba sintetica. Erba sintetica? E chi l’aveva mai vista una cosa del genere in Italia? Dovevamo aspettare ancora trent’anni per questo.

Ogni giorno passavamo alla libreria City Lights in Columbus Avenue. Era quella un luogo storico che proprio in quel periodo compiva i suoi primi 25 anni di vita. Il proprietario era il celebre poeta beat Lawrence Ferlinghetti, che avemmo anche la fortuna di incrociare tra uno scaffale e l’altro. Su un muro della libreria, sempre tempestato di annunci di tutti i tipi, un sera leggemmo l’annuncio di un concerto. Tonight in Palo Alto: The Byrds. Come, come, come? Proprio loro? Proprio quel mitico gruppo rock reso celebre dalla canzone di Bob Dylan, Mr. Tambourine Man? Così non ci pensammo su un solo istante e partimmo con un bus della linea Greyhound diretti a Palo Alto, piatta e insulsa cittadina a qualche chilometro da Frisco.
Il concerto si teneva in un posto strano, una specie di grande caffè allargato, con tavolini su cui si poteva bere e mangiare. Ci sembrava strano che quel gruppo così famoso si esibisse in un posto così misero e triste. Ma le cose andarono proprio così, anche se a loro mancava in verità la pedina più importante e cioè David Crosby che aveva già da tempo abbandonato il gruppo di partenza, lasciando quindi soli McGuinn, Hillman e Clark. Ma i tre moschettieri rimasti, comunque, non erano male per niente e suonarono quella notte in modo davvero maestoso.
Verso la fine della settimana decidemmo di affittare una macchina per andare fino a Los Angeles. La meno costosa che trovammo era una Ford Fiesta, davvero mini per gli esagerati standard statunitensi. Con questa piccola auto affrontammo la lunga Pacific Coast Highway, ovvero la strada del sogno americano, che passa lungo la costa dalle parti di Big Sur, tra le cui montagne di Santa Lucia si erano ritirati scrittori niente male, come Henry Miller e Jack Kerouac. Nella città degli angeli trovammo un motel a Hollywood, frequentato per lo più da prostitute e transessuali, ma estremamente economico in verità e questo per noi bastava e avanzava, visto che il nostro budget era giunto letteralmente alla canna del gas.
Quella città enorme non ci piacque un granché, a dire la verità. Le sue strade super grandi, le distanze galattiche, le case enormi, ci trasmisero subito una malinconia enorme. Non bastò a tirarci su il morale né la visita al Teatro Cinese, dove i divi del cinema avevano lasciato mani e piedi impressi nel cemento e neanche il giro della case delle star che un ragazzino ci offrì di fare, dopo averci rifilato per cinque dollari la sua personale Star Map, ovvero la piantina dettagliata della case dei divi disegnata da lui stesso. Facemmo in tempo a intravedere Alfred Hitchcock o almeno quello che sembrava essere il famoso regista di Psycho, passeggiare in un grande parco di sua proprietà a circa un chilometro e mezzo di distanza dal luogo dove ci trovavamo noi. “Ma è davvero lui?”, domandammo al ragazzino. “Yes, sir.”, rispose quello, provandoci subito a vendere per altri cinque dollari un’altra map ancora più dettagliata che prevedeva gli orari in cui tutti i divi sarebbero stati a casa.
Dopo un paio di notti infernali passate nel nostro delizioso motel in cui non si riusciva proprio a dormire a causa del frastuono provocato dal cigolio dei letti e dalle urla finte delle professioniste di cui sopra, decidemmo di spararci gli ultimi dollari visitando Disneyland, quello vero, il primo a essere stato inaugurato nel lontano 1955 da Walt Disney in persona. Si trovava nel quartiere di Anaheim, in periferia. Comprammo un bel carnèt di biglietti e ci tuffammo dentro, iniziando a provare i vari giochi e le attrazioni che c’erano. Alla fine della giornata, però, avevamo la testa come un pallone, stanchi di tutti quei finti Topolini e Minnie che giravano da una parte all’altra, stanchi delle tazze girevoli, del castello della Bella Addormentata e di tutte quelle migliaia di ragazzini che strillavano a palla dentro le nostre povere orecchie.
Tornammo a San Francisco felici, per rilassarci di nuovo insieme ai nostri dolci hippies, ai loro codini nei capelli, le chitarre folk e i fiori colorati sulla testa. E agli amici rimasti nella nostra bella Italia in bianco e nero, in preda ai terribili anni di piombo, spedimmo un sacco di cartoline. In una di queste c’era la famosa montagna, quella con la scritta Hollywood. Con una freccia indicammo anche lo squallido motel che si trovava lì sotto, invitandoli a frequentarlo al più presto.