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La forza della normalità: Bob Dylan e il Nobel

Perché la tranquilla indifferenza di Bob Dylan al circo mediatico del premio Nobel è un gesto di resistenza

Francesco ErspamerbyFrancesco Erspamer
bob dylan

Un giovanissimo Bob Dylan con Joan Baez

Time: 3 mins read

Il Nobel è un ridicolo baraccone mediatico; vedrete che alla cerimonia fra un po’ i vincitori ci andranno con il frac coperto di loghi degli sponsor, come i piloti di Formula 1. Per non parlare del fatto che troppo spesso viene assegnato a personaggi o ricerche di moda o, peggio, che l’Accademia di Svezia e i suoi finanziatori vogliono promuovere, non ai più meritevoli o interessanti – parlo di quello per la letteratura, l’economia e la pace; di medicina, chimica e fisica non posso giudicare. Anche la cifra che viene data in premio è assurda, roba da totocalcio; rende i vincitori avidi e dunque acquiescenti: non è facile ignorare un milione di euro.

Invece per Bob Dylan è stato facile. Non credo proprio che abbia voluto snobbare il riconoscimento e neppure che sia stato incerto sull’opportunità di accettarlo. Molto meglio: lo ha semplicemente trattato come un evento ordinario, ignorando le esigenze della grancassa mediatica. Rifiutare il Nobel poteva essere un gesto scandaloso e dunque significativo nel 1964, quando appunto lo rifiutò Sartre, nella breve epoca in cui si credette che le idee e l’impegno potessero cambiare il mondo; quattro anni dopo a Città del Messico Tommie Smith e John Carlos alzarono il pugno chiuso nel guanto nero sul podio dei 200 metri olimpici; nel 1973 Marlon Brando disse di no all’Oscar. Quella stagione è finita: i nuovi media e le nuove tecnologie hanno sdoganato tutto, la trasgressione, la pornografia, il sensazionalismo, il gossip e anche la protesta; accettandole e inflazionandole, trasformandole in spettacolo, le hanno svuotate di qualsiasi significato politico e valore sovversivo.

Per questo la tranquilla indifferenza di Bob Dylan mi è piaciuta. Se avesse rinunciato al Nobel, per i media sarebbe stata una pacchia: sono certo che non appena è stato comunicato il suo nome hanno commissionato a scrittori e intellettuali di punta qualche intervento polemico su quel possibile gran rifiuto. Invece lui si è comportato come una persona normale che ricevesse un riconoscimento normale e dunque ignorato dai mezzi d’informazione: ha risposto ma senza fretta, nei suoi tempi, non in quelli preferiti dalla stampa e dalle televisione. Che hanno ovviamente reagito male, accusandolo di presunzione e di mancanza di buona educazione se non di dignità – proprio loro, i principali artefici del sistema delle celebrity non ché della deriva etica e culturale e dell’analfabetismo di ritorno che caratterizzano la nostra società.

Bravo Bob. Non credo che tu lo abbia fatto coscientemente ma non importa: sei restato autentico. Come nell’ultima strofa di Maggie’s Farm, dove affermasti la tua insofferenza per qualsiasi ruolo predeterminato, incluso quello di voce della lotta per i diritti civili: “But everybody wants you / To be just like them / They say sing while you slave and I just get bored / I ain’t gonna work on Maggie’s farm no more”. Un ribelle non lo eri allora e non lo sei adesso. Ma deludendo ancora una volta le aspettative di chi pensava di poterti manipolare, hai indicato inconsapevolmente l’unico modo in cui oggi si può efficacemente contrastare il pensiero unico imposto dal peggior totalitarismo che la storia abbia conosciuto, quello dei media: bisogna ignorarli. Bisogna rigettare le loro ridicole iperboli, l’empatia a telecomando, le continue emergenze attraverso cui indirizzano su problemi immaginari la rabbia della gente; bisogna riscoprire la forza della normalità, ossia dell’avere norme, regole, contro la deregulation liberista. Regole magari da infrangere ma che diano senso al gioco e a tutti la possibilità di giocare, non solo ai furbi e ai bari. L’indifferenza nei confronti della politica, dello Stato, del nostro prossimo, rafforza il potere dei ricchi e delle multinazionali; ma l’indifferenza nei confronti dei media lo indebolisce.

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Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Nato a Bari, cresciuto a Parma e in Trentino, laureato a Roma, professore a Harvard. Mi interesso di letteratura, politica, storia delle idee e cambiamenti culturali. Insegno corsi su estetica, romanzo moderno e contemporaneo, Rinascimento, calcio. Di recente ho scritto: La creazione del passato, Sulla modernità culturale e paura di cambiare, Crisi e critica del concetto di cultura. Come Gramsci, penso che al pessimismo della ragione occorra accompagnare l’ottimismo della volontà, e come James Baldwin, che la libertà non la si possa ricevere in dono: bisogna prendersela.

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