Un grande ponte sull’oceano Atlantico, capace di mettere in connessione uomini e donne che hanno fatto della ricerca il loro mestiere. E che per inseguire il proprio sogno e mettere a frutto i propri talenti si sono lasciati “casa” alle spalle, mettendo radici nelle università e nei centri di ricerca degli USA e del Canada. Questa è, con una metafora, la fondazione ISSNAF (Italian Scientists and Scholars of North America Foundation), che oggi inaugura una nuova rubrica mensile, A beautiful mind, grazie all’ospitalità de La Voce di New York. Per iniziare a conoscere questa realtà, abbiamo fatto alcune domande al presidente di ISSNAF Vito M. Campese, professore di medicina, fisiologia e biofisica presso la University of Southern California.
Presidente Campese, nel 2007 è stato uno dei 36 scienziati italiani in Nord America a fondare ISSNAF. Quale fu la motivazione che vi spinse allora?
“ISSNAF fu fondata nel 2007 su sollecitazione dell’Ambasciata Italiana a Washington D.C. L’ambasciatore all’epoca era Giovanni Castellaneta ed attraverso il suo Scientific Attaché, professor Giorgio Einaudi, sollecitò un gruppo di scienziati di Los Angeles a cercare di formare una associazione di scienziati italiani. Ebbi l’idea di formare una fondazione in quanto questo avrebbe facilitato la raccolta di donazioni tax-deductible. La fondazione di tipo 501 c3 fu approvata nel luglio del 2007. Il gruppo fondatore includeva 36 scienziati italiani fra cui 4 Nobel Prize. L’idea iniziale fu quella di creare un gruppo di scienziati italiani che operavano in Nord America disposti a sviluppare programmi di collaborazione scientifica fra i loro laboratori e laboratori di ricerca italiani. Si presumeva che questo avrebbe contribuito a migliorare l’allora esistente gap fra la scienza di base in Italia e quella negli Stati Uniti in vari settori scientifici. Con i suoi 7 Scientific Advisory Boards, ISSNAF rappresenta quasi tutto il patrimonio di scienziati italiani in Nord America in tutte le scienze”.
Che bilancio fa dei primi otto anni di lavoro?
“ISSNAF oggi è costituita da circa 4mila membri o affiliati e rappresenta la più grande organizzazione di scienziati italiani all’estero. Conta 16 chapters divisi per locazione o per indirizzo scientifico, e ha avuto un notevole successo nell’incrementare le collaborazioni scientifiche fra gli Stati Uniti e l’Italia, attraverso la sponsorizzazione di fellowships in vari settori di ricerca, l’istituzione di collaborazioni scientifiche fra laboratori americani ed italiani, il supporto ai giovani ricercatori italiani con la creazione di Young ISSNAF ed un programma di mentorship”.
Oggi moltissimi giovani ricercatori approdano negli Stati Uniti e in Canada alla ricerca di nuove opportunità di lavoro. Ci racconta invece come iniziò la sua esperienza in Nord America? Quanti anni aveva, e quali aspettative?
“La mia esperienza americana è cominciata nel 1974 quando riuscii ad ottenere un fellowship per lo studio delle ipertensioni alla University of Southern California in Los Angeles. Il piano iniziale era quello di ritornare in italia dopo un anno, ma, su sollecitazione del mio mentor americano, prolungai la mia fellowship ad un secondo anno. Verso la fine del secondo anno la Usc mi propose di rimanere negli Stati Uniti come Assistant Professor of Medicine. All’epoca avevo già un lavoro presso l’Università di Bari e non era nei miei piani, né in quelli di mia moglie, di rimanere negli USA. Chiesi un parere al mio direttore all’Universià di Bari, assieme a garanzie che al mio ritorno avrei avuto l’opportunità di avere un laboratorio tutto mio dove poter continuare la ricerca iniziata in Italia. La risposta del mio direttore, che peraltro era una bravissima persona, fu: “Ritorni e poi vediamo”. Fu questa vaga risposta, unita ai turbamenti esistenti all’epoca nelle università italiane (parlo del 1978), a convincermi ad accettare l’offerta americana. Devo dire che non mi pento di aver preso questa decisione, perché mi ha consentito di acquisire un bagaglio culturale e scientifico che mi ha reso quello che sono oggi. Sono sicuro che, se fossi ritornato in Italia, non avrei avuto le stesse opportunità”.
Secondo lei gli USA sono aperti e accoglienti oggi nei confronti di chi porta il suo talento dall’estero?
“Certamente il mondo americano è molto più aperto e pronto ad accogliere eccellenze da ovunque esse provengano. Non è un caso se nei laboratori americani ci sono persone provenienti da tutti i continenti e non è un caso se moltissimi laboratori americani sono diretti da ricercatori laureati in ogni parte del mondo. Negli USA vali quello che sai, quello che sai fare e quello che sai produrre. A volte è un mondo spietato, ma certamente più giusto di quanto si vede in Italia”.
Che cosa ha da imparare l’Italia dal sistema di ricerca Nord-americano, e che cosa invece avrebbe quest’ultimo dall’Italia?
“A mio avviso, ci sono quattro elementi fondamentali che il sistema universitario italiano deve implementare per fare un salto di qualità. Il primo ha a che fare con il supporto alla ricerca. In Italia il supporto per la ricerca è fra i più bassi in Europa e la distribuzione delle risorse spesso viene fatta a pioggia e non seguendo criteri meritocratici. Di conseguenza, la capacità innovativa è limitata, come dimostrato anche dal limitato numero di brevetti prodotti ogni anno. Inoltre, la società italiana non riconosce in maniera adeguata l’importanza delle scienze per l’innovazione e per lo sviluppo economico della nazione.
Il secondo ha a che fare con la governance della ricerca. Questa richiederebbe la soluzione di alcuni punti essenziali: costituzione in seno al MIUR di un Centro di coordinamento della ricerca che agisca da interfaccia con il mondo produttivo/scientifico/accademico; la di agenzie scientifiche che coprano specifiche aree, come per esempio: biologia e medicina, ingegneria e informatica, scienze fisiche chimiche e matematiche, energia e ambiente, agricoltura, scienze umane e sociali; èessenziale che queste agenzie/dipartimenti abbiano autonomia di gestione, anche se esse devono rispondere al MIUR (“accountability”); il budget di ciascuna agenzia andrebbe deciso dal governo, con parere consultivo del MIUR.
Terzo elemento è il sistema di governance. Attualmente la distribuzione delle risorse non viene effettuata secondo criteri meritocratici e vi è insufficiente verifica dei risultati. I rimedi includono:l’assegnazione dei fondi di ricerca secondo criteri meritocratici e competitivi condivisi dalla comunità scientifica internazionale; ’istituzione di un sistema peer review con l’introduzione di una componente internazionale; chiare norme per la prevenzione e gestione del conflitto di interessi; aumentare la mobilità dei ricercatori e l’apertura al mondo esterno. Nelle università italiane è difficilissimo che si dia lavoro a uno straniero o anche a qualcuno che proviene da un’altra università italiana. La maggior parte degli atenei sono chiusi in se stessi e, di conseguenza, soffocati da un sistema oramai antico. Si parla tanto in Italia della ‘fuga dei cervelli‘, ma non si fa nulla per facilitare un processo di rientro o di reclutamento dei migliori cervelli, ovunque essi si trovino. Le università italiane dovrebbero imparare dalle squadre di calcio. I migliori giocatori si vanno a cercare in tutto il mondo e non soltanto in casa propria.
Il quarto punto ha a che fare con l’intensificazione dei rapporti fra governo, università e industria e con la creazione di finanziari per supportare la ricerca, creare spin-offs, research & development nella piccola-media industria”.
Che cosa si aspetta dal 2017 targato ISSNAF?
“Mi aspetto che ISSNAF continui a crescere con l’aumento del numero dei membri e associati, l’espansione dei programmi di scambio fra laboratori italiani e americani, maggiore collaborazione con le istituzioni italiane, soprattutto con le Regioni, una campagna di fund-raising che ci dia maggiore stabilità e più opportunità di crescita”.