Fino al 4 luglio, in concomitanza con il Summer Fancy Food, a New York va in scena L’eleganza del cibo, una mostra che celebra un connubio eccezionale, quello tra stile e sapore del made in Italy.
Il cibo e la moda: due mondi e modi del vivere quotidiano. Si mangia e ci si veste ogni giorno non solo per sopravvivere ma soprattutto per vivere. E in questo vivere, mangiare e vestirsi si abita il mondo, si codificano i linguaggi e i comportamenti, si costruisce l’identità, non solo personale ma anche collettiva. In fondo la maniera di mangiare e di vestire contraddistingue le immagini e identità di popoli e nazioni ma anche le industrie, l’economia e il lavoro. Dunque queste due industrie culturali, la moda e il cibo, producono non solo immagini simboliche e desiderabili ma anche lavoro per milioni di persone che si dedicano allo sviluppo delle stesse. Sono industrie manifatturiere che hanno determinato nella storia delle nazioni e del mondo rivoluzioni industriali ma anche movimenti globali. Basti pensare all’esempio di Carlo Petrini che ha lanciato una rivoluzione e un movimento, Slow food, che ha oggi un seguito enorme e globale.
L’Italia è il paese che più di ogni altro ha nel cibo e nella moda i pilastri della sua cultura e identità, e non solo di quella estetica. Il made in Italy si racconta e si riconosce attraverso quelle che sono state identificate come eccellenze del design, il know-how artigianale che nel Ventunesimo secolo si sposa alla sperimentazione, alle tecnologie, alle rivisitazioni della natura e alla sostenibilità. Una nuova poesia e sinergia di immagini e gusto. Ma anche un nuovo stile di vita. Se si parla di benessere in rapporto al cibo, si può e si deve parlare di benessere rispetto alla moda. Come il cibo interroga il corpo, il territorio, la natura e il paesaggio, altrettanto lo fa la moda e soprattutto gli abiti che scegliamo e indossiamo per le nostre interazioni sociali. Il cibo è anche gioco e creatività, performance, gesto e teatralità proprio come la moda, anche se le loro esecuzioni sono espresse in maniere diverse.
La mostra L’eleganza del cibo: Tales about Food and Fashion racconta già nel titolo questa storia multipla di sinergie non solo estetiche ma anche culturali e linguistiche. Il buon cibo si collega allo stile e alla bellezza ma anche all’idea del racconto e delle varie intersezioni tra la cultura italiana e quella americana e internazionale. L’ICE (Istituto per il commercio estero) di New York ha sponsorizzato la mostra, realizzata in collaborazione con Unindustria e curata da una coppia d’eccezione: Stefano Dominella e Bonizza Giordani Aragno. La mostra aveva inizialmente occupato i magnifici spazi del Museo dei Mercati Traiani a Roma, nella primavera del 2015, durante l’Expo Milano. Ora a New York, occupa l’Art Space del Chelsea Market.
“Questa mostra coniuga e unisce il buono e il bello delle eccellenze del made in Italy – dice Maurizio Forte, direttore dell’ICE di New York – e tutto quello che il mondo ci invidia: the extraordinary Italian style”.
Questa mostra è importante per molte ragioni e una tra le molte è che lancia un messaggio chiaro: la moda è una cosa importante e seria, come il cibo. Non mi sembra che questo messaggio sia ancora completamente recepito o per lo meno inteso nella sua grande portata per lo sviluppo internazionale del made in Italy. Che un ente governativo come l’ICE abbia investito in questa mostra che indaga le intersezioni tra moda e cibo, nel tessile, nella manifattura, nel design (come i gioielli eleganti e originali di Gianni De Benedittis, Futuro Remoto e le scarpe di Ferragamo), è un modo per correggere questo squilibrio e raccontare l’impatto della moda e del design per il successo del made in Italy.
La moda, con le sue ramificazioni nel design, la sperimentazione del tessile, i colori, la manipolazione dei materiali, la cura delle rifiniture, deve essere trattata alla stessa stregua di altre industrie manifatturiere e culturali. Del resto i curatori stessi, Stefano Dominella e Bonizza Giordani Aragno, sono da una vita ambasciatori del made in Italy, hanno lavorato e lavorano in Italia a 360 gradi per promuovere la moda italiana in tutti i suoi aspetti e contesti.
Esistere ed essere al mondo, abbracciare il mondo e accompagnarsi alla storia e ai colori e alle emozioni che derivano dal gustare la cucina italiana e dal vestire Italian Style: questa è l’esperienza proposta dalla mostra. Questi due campi così importanti per la storia, la cultura e l’economia italiana solo recentemente stanno ricevendo la meritata attenzione nel campo di contesti culturali ed estetici al pari di altri ambiti ormai sedimentati da secoli come la letteratura e le altre arti e tecnologie. Food Studies e Fashion Studies stanno prendendo piede nei dipartimenti di Italian Studies, nelle università e non solo nelle scuole dell’arte culinaria e della moda. Il ruolo dell’Italia in questo ambito è fondamentale. È necessario che anche al livello di riorganizzazione delle discipline nelle università si tenga conto di questo per le riforme curricolari. Questo vale secondo me sia per l’Italia che per gli Stati Uniti. La grande rivoluzione digitale ha anche avuto il suo impatto di grande trasformazione nell’accelerare processi in cui le gerarchie tra le arti crollano e gli ambiti conoscitivi, come piccole finestre sullo schermo dei nostri computer, tablet e smartphone dialogano, gli uni con gli altri, in un network e una contiguità mai visti prima. Anche di questo bisogna tener conto per capire il made in Italy.
Eppure già Pellegrino Artusi, il padre della cucina italiana, anzi definito da Prezzolini il Dante della cucina italiana, scrisse La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene nello scenario dell’Italia post-unitaria. Il suo libro voleva trovare una formula linguistica e culturale che unisse tutte le diverse cucine regionali e presentasse in maniera chiara e comprensibile la scienza e l’arte della cucina. La grande innovazione di Artusi sta nel delineare non solo l’importanza del mangiar bene, del benessere, ma anche quanto i sensi del tatto o del gusto fossero altrettanto nobili rispetto a quelli della vista e dell’udito, cosa che spiega nella sua prefazione. Il suo libro, tra l’altro, è una sorta di antesignano blog. Il testo infatti parte da un numero definito di ricette, circa 475, che poi diventano nelle varie ristampe 790. Una buona parte delle ricette che si aggiungono provengono dagli stessi lettori del libro di Artusi: i lettori creano un dialogo con l’autore e partecipano alla sua riscrittura, proprio come avviene negli attuali blog. Dunque, la cucina e il cibo in Italia hanno anche questa importante tradizione culturale e linguistica. Il libro di Artusi si legge anche come un testo letterario ed un racconto.
Ma non dobbiamo dimenticare che anche la moda in Italia ha una lunghissima tradizione e una storia culturale, artistica e linguistica. Come si potrebbe concepire la creatività e la meticolosità della nostra tradizione artigianale se non si pensa alle botteghe che sin dal Medioevo definivano l’identità e l’economia delle città e poi delle corti? Il vestire era stato identificato dalla cultura rinascimentale come un segno di civiltà. Presentarsi in società con i colori, il taglio e i tessuti giusti era il passaporto per il successo, come ben descrive lo scrittore e diplomatico Baldassarre Castiglione nel Libro del Cortegiano, uno dei primi esempi di bestseller europeo insieme al Principe di Niccolò Machiavelli.
Il cibo e la moda sono dunque i pilastri della cultura del made in Italy che deve essere compreso in una prospettiva di lunga durata che ha radici lontanissime e non solo legate al suo lancio nel dopoguerra. Il made in Italy significa anche e soprattutto per come lo si racconta e percepisce all’estero.
Dunque ben vengano iniziative come quella della mostra L’eleganza del Cibo. Una mostra che sa raccontare la bellezza e la ricchezza, il saper fare e l’estro del made in Italy, della sua storia e tradizione, delle sue importanti sperimentazioni, innovazioni e collaborazioni. Molti dei designer presenti hanno stabilito collaborazioni con il cinema, il teatro, la televisione: dai più giovani come Gianni De Benedittis e Tiziano Guardini e la sua ethical fashion, alle marche storiche come Gattinoni, Armani, Antonio Marras, Emilio Pucci, Max Mara, Etro, Gianfranco Ferrè, Moschino, Ken Scott, Romeo Gigli e altri. Infatti sia il cibo che la moda hanno grandi sinergie con altri media, arti e industrie. Ed è attraverso i media che la moda e il cibo vengono comunicati.
Stefano Dominella, CEO di Gattinoni, sartoria storica romana, mi dice: “In occasione dell’Expo Milano, dedicato alla nutrizione, sono stato invitato per organizzare una mostra a Roma dedicata a questa strana coppia moda e cibo. Ero eccitato all’idea di organizzare qualcosa di veramente creativo”.
Dominella, che negli anni Ottanta insieme a Raniero Gattinoni lanciò il pret-a-porter a livello internazionale, collabora da anni con la nota storica della moda, Bonizza Giordani Aragno con la quale ha curato tante mostre. Entrambi erano a New York per l’allestimento e l’inaugurazione della mostra al Chelsea Market. È stato bello rivedere Bonizza a New York e sentire come sia sempre così attenta a recepire non solo le nuove prospettive in cui esporre la moda ma anche a saper individuare i nuovi talenti creativi del made in Italy, tra cui anche alcuni suoi studenti allo IED e all’Accademia di Moda e Costume di Roma. “Oggi non è più possibile fare una mostra cronologica – mi racconta la curatrice – Sarebbe davvero noiosa e poi non coglierebbe più gli intrecci e la complessità di una storia che non può essere vista in maniera lineare. Le mostre di moda devono essere tematiche e avere un taglio e un concetto preciso da indagare e intorno a cui costruire l’esposizione”.
Molti americani non conoscono l’importante storia della maison Gattinoni e il suo ruolo chiave per il lancio del made in Italy nel dopoguerra che avviene prima da Firenze e poi da Roma che si delinea come città del cinema e della moda. Fernanda Gattinoni vestiva le dive di Hollywood come Ingrid Bergman, Kim Novak, Audrey Hepburn, e anche l’ambasciatrice Americana a Roma, durante la Guerra fredda, Claire Boothe Luce.
Tra le sartorie storiche romane del dopoguerra, la Gattinoni è l’unica a sopravvivere grazie anche al lavoro di Stefano Dominella e del direttore creativo Guilleromo Mariotto. Alla mostra c’erano sia un abito recente di Gattinoni, il Bread suit e il Verdura di Raniero Gattinoni, il figlio di Fernanda, prematuramente scomparso nel 1993.
I curatori, coadiuvati dalla efficiente squadra dell’ICE, hanno usato al meglio gli spazi espositivi del Chelsea Market. E quale posto migliore per fare una mostra che coniuga moda e cibo sul piano dell’eleganza e del buon gusto? Ci sono, tra gli altri, gli irriverenti abiti di Moschino come Pizza napoletana; l’abito Cristalli di Romeo Gigli, geniale nel suo impatto scultoreo e insieme leggerezza del tessuto e delle piegoline; l’abito stupendo di Armani, Bamboo; Limoni di Walter Albini; il kimono di Maurizio Galante; Tagliatelle, dell’americano Ken Scott che si stabilì in Italia e dedicò tante delle sue stampe al cibo; oppure il giovane Italo Marseglia che realizza 10 abiti Nuvola con 500 metri di tulle: questi abiti sono sospesi dal soffitto in uno spazio circolare e appaiono come tante nuvolette. Sono abiti, questi, non solo estrosi e spiritosi ma anche eleganti, che si ha voglia di indossare. Sono però anche abiti pensanti, che indagano i limiti del concetto di abito, del corpo e dello spazio.
In apertura del percorso della mostra, il visitatore incontra due abiti dell’eco designer Tiziano Guardini che, anche lui presente all’inaugurazione, spiega come ha realizzato i tre abiti presenti a New York della collezione FW 2016-2017 che sono pezzi diversi da quello dell’abito liquirizia realizzato per la mostra tenuta a Roma. Ci sono un abito couture realizzato con corteccia di albero e un ensemble di una camicetta in seta naturale e gonna di juta e aghi di pino. Sono abiti scultura di una eleganza squisita. Guardini mi spiega che la seta della camicetta Aimsha o Gandhy Silk viene dall’Himalaya ed è stata ottenuta solo dopo che la larva ha completato la propria metamorfosi e “producendo un filo con un effetto irregolare”. Riesco a toccare in sua presenza questa seta che ti da una sensazione di leggerezza diafana. Sembra di toccare le ali di una farfalla: la collezione infatti si chiama Three Days to Butterfly. Mi immagino cosa possa essere sentire questa seta sulla pelle. È con questa immagine di delicatezza e rispetto della natura e dei suoi tempi che vorrei concludere. Nelle prossime puntate continuerò a dedicare la mia attenzione a descrivere il lavoro dei nuovi designer del made in Italy presenti alla mostra L’eleganza del cibo e i suoi racconti e percorsi della moda e design.