Lo propongo in forma positiva, proprio perché contro di essa si accanisce l’odio distruttivo degli odierni cosiddetti rivoluzionari, a partire dagli apripista talebani iconoclasti dei Buddha di Bamiyan nel 2001 fino ai recenti profanatori di Palmira. Potrei ricordare anche tanti cristiani di diverse fedi in epoche diverse, iconoclasti dell’arte islamica, ma anche della propria. Come nei secoli passati, l’arte fa paura sia essa immagine sia essa parola. L’arte è più eversiva (nella sua radice latina) e rivoluzionaria di ogni credo, religioso o politico, l’arte incute sgomento a tutti i fanatici e i fondamentalisti. Perché l’arte è bellezza e perciò libertà e verità. Chiaro perché è la prima vittima di tutti i rivoluzionari dogmatici, da Savonarola, ai Crociati a Stalin.
Va di moda fra i mass-media e i social network lo slogan superficiale e semplicistico del “mondo salvato dai bambini” nel clima renziano in cui predomina e impera la norma del meglio giovane e ancor meglio se fanciulla e bella. D’altronde fece scuola l’epoca passata, detta in Italia semplicemente il ’68, in cui si cantò nei cortei la “fantasia al potere” e per tale si intese quella dei ragazzi. Con altro spessore una delle più grandi scrittrici italiane, Elsa Morante, titolò la sua raccolta di poesie Il mondo salvato dai ragazzini, che Pasolini, PPP, definì “Un manifesto politico scritto con la grazia della favola, con umorismo, con gioia”. Sì, certo, una favola.
Altro slogan va forte: “La bellezza salverà il mondo”, stranamente in questa società che ha innalzato a forma di arte anche il brutto e il deforme, Botero docet e Umberto Eco, “fabbricante di immagini”, conferma con la sua Storia della bruttezza (2007). Si vuol trovare una speranza soteriologica in una formula di assoluta banalità, come l’ha stroncato l’architetto Massimiliano Fuksas nella sua idea di creatività.
Eppure si vuol descrivere il mondo come un oscuro recesso di buio e di tenebre, come il giubilato regista britannico Mr. Graham Vick ha voluto rappresentare al Teatro Massimo di Palermo l’intero Der Ring des Nibelungen wagneriano, concluso in questi giorni con il tenebroso Götterdämmerung, un “crepuscolo” finito nel kitsch più banale da baraccone dei miracoli con paparazzi, tv e sghignazzi di omuncoli, attualizzazione enfatica e abusiva di una Palermo da stereotipo di stampa, quella Palermo che è soprattutto “bella di civiltà”, l’Aziz, non solo sommersa di immondizia e in preda alla mafia, alla cocaina e ai kamikaze dell’Isis, cinti di mortaretti, il brutto del pessimo conformismo. Di tutto si è scritto quotidianamente sui giochi barocchi e il funambolismo registico di tale genio, nulla della musica sublime del genio di Bonn e Bayreuth, quasi fosse essa un espediente secondario, una colonna sonora alla stravaganza scenografica di orrido modernariato. Qualche bonaria comprensione dei limiti inconfutabili dei cantanti, salvati come attori. La Bellezza è oggi scarsamente popolare fra i media, non fa scoop! In tutta l’arte impera l’horror e anche il trash, la peggiore exploitation, pessima imitazione del pulp di Quentin Tarantino.
Secoli fa Agnolo Firenzuola nel suo dialoghetto Delle bellezze delle donne intitolato Celso del gennaio 1541 scrisse: “La bellezza è il maggior dono che facesse Iddio all’umana creatura; con ciò sia che per la di lei virtù noi ne indirizziamo l’animo alla contemplazione e per la contemplazione al desiderio delle cose del cielo”. Egli fu monaco, imbevuto fino al midollo di Umanesimo, tanto da rendere in versione cristiana la pudica oscenità dell’Asino d’oro di Apuleio. Sì, allora il riferimento era più circoscritto alla bellezza femminile, all’Afrodite di Milo o meglio alla Callipygia (“dalle belle natiche”) che nasce dalla spuma del mare. E di questa bellezza l’arte ne è piena, dalle Veneri classiche con la loro nudità sublime alla Primavera del nostro Botticelli fino al candore raffinato delle donne di Canova. E la letteraria bellezza “serenatrice” del nostro Foscolo. Non c’è spettatore che non sia rimasto ammutolito davanti alla misteriosa bellezza della Gioconda. Già nel VI secolo a.C. Policleto definì con il suo “canone” matematico le leggi della bellezza, come armonia ed equilibrio. Dal Doriforo fino all’Uomo vitruviano di Leonardo. Ne verrebbero escluse quasi tutte le star del cinema per un piccolo difetto.
Lo slogan moderno trae origine da una frase estrapolata da un contesto più complesso e articolato, con altra profondità e ambiguità semantiche. Il “genio crudele” Fëdor Dostoevskij nel capolavoro sconvolgente e rivoluzionario, L’idiota, fa chiedere a Lev Nikolaevič Miškin: “È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?”. La traduzione snatura l’esistenziale equivoca domanda che era invece così posposta: “il mondo (lo) salverà la bellezza” (mir spaset krasotà, Мир спасет красота), ove nell’anafora non è la bellezza, ma il mondo a essere messo in primissimo piano. E ancor più tremendamente arcano il nesso se si tiene conto che in russo mir significa “mondo”, ma anche “pace”. Nel quesito, che vuol essere una conferma, c’è l’enunciazione dell’idea radice del romanzo, che l’autore enunciò in una lettera a Majkov del 31 dicembre 1867, cioè di “rappresentare un uomo pienamente buono”, prekrasnyi, così sommariamente tradotto. In effetti esso indica l’eccesso della bellezza, lo splendore della bellezza, il fulgore di Myskin. È l’aggettivo ambiguo del greco kalós che è “bello”, ma anche “buono”. E in questo sta la certezza antica: la bellezza è anche bontà. Questa la complessità di un romanzo definito “pericoloso”.
Nello slogan italiano ha pesato probabilmente il titolo suggestivo, La bellezza salverà il mondo. Wilde, Rilke, Cvetaeva, saggio del filosofo bulgaro Cvetan Todorov, che stravolge completamente il titolo originale francese, Les Aventuriers de l’absolu. L’autore sulla base dell’estetismo di Oscar Wilde, Rainer Maria Rilke e Maria Cvetaeva, cultori della vita come bellezza, come opera d’arte, ne individua l’aspirazione all’assoluto attraverso la magia dell’arte. Qui essa si identifica nel miracolo del linguaggio, la parola come segno allegorico e rappresentazione del bello.
Si potrebbe proseguire nei secoli come fece F. Hutcheson già nel 1719 con la sua Ricerca sull’origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, ma in questa mia fantasticheria mi fermerò su due mostri sacri: Platone e Kant. Ognuno può allargare l’indagine infinita con altri pensatori o sugli stessi due geni.
Comincio con Platone, perché con lui nasce nel mondo occidentale l’estrinsecazione del pensiero, il Logos che fa l’uomo dio. Nell’Atene del suo tempo il concetto di kalós, di “bello”, era strettamente legato alla componente dell’agathós, la cui stretta unione anche in crasi grafica riassumeva l’eccellenza del polites, del cittadino, quello che divenne nelle società moderne il “galantuomo”.
Di Platone, data la mole e la complessità delle sue formulazioni estetiche sul bello mi piace riferire solo qualche spunto di riflessione. Alla ricerca del vero bene, se sia esso il godimento, il piacere, la voluttà, ammessa la necessità della misura e della proporzione nella mescolanza, dialogando Socrate con Protarco spiega: “la potenza del bene ci è ora sfuggita verso la natura del bello: misura e proporzione accade che siano ovunque bellezza certamente e virtù. – Sì, certo. – E verità pure dicevamo mescolata a loro nella fusione. – Certo. – Dunque se non con una sola idea possiamo cogliere il bene, avendolo preso con tre, cioè bellezza, simmetria e verità, diciamo che questo, come una unità, possiamo a buon diritto attribuirlo alla mescolanza e perciò come se fosse il bene qual è” (Filebo, 64-65). Ma l’esaltazione somma della bellezza, nell’iperuranio divino, è qualcosa che supera l’umana comprensione: “Dunque è qui che giunge tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, nel vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi di quella vera, mette le ali e desidera alzarsi in volo, ma non essendo capace di volare in alto, come un uccello guarda su, incurante di ciò che sta in basso, e perciò è accusato di essere in stato di mania”. Perciò “avendo ricevuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, ne rimane infiammato e di esso la natura dell’ala si abbevera”. (Simposio, 249d e 251b).
Con un salto al 1790 e al prologo della Critica del giudizio in una società in cui bello, Schön, deriva da schauen che significa “guardare”: “Il piacevole, il bello, il buono designano dunque tre diversi rapporti delle rappresentazioni verso il sentimento di piacere e di dispiacere, secondo cui distinguiamo gli oggetti o i modi della rappresentazione. Anche le espressioni adeguate, con le quali si designa il compiacimento nei tre casi, non sono le stesse. Ognuno chiama piacevole ciò che lo diletta; bello ciò che gli piace senz’altro; buono ciò che apprezza, approva, vale a dire ciò cui dà un valore oggettivo. Il piacevole vale anche per gli animali irragionevoli; la bellezza solo per gli uomini, nella loro qualità di esseri animali, ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono semplicemente ragionevoli (come sono, per esempio, gli spiriti), ma in quanto sono nello stesso tempo animali; il buono invece ha valore per ogni essere ragionevole in generale» (L’analitica del bello, § 5, Laterza Bari 1979).
La Bellezza è perfezione e verità e quindi è etica. In questa socratica mistione sta lo scandalo della Bellezza e la sua mistificazione. Perciò la guerra dichiaratale da tanti nemici. In questa forma potrà apparire irraggiungibile, ma basterà anche soltanto la “tensione”. Nel mondo c’è tanta Bellezza, basta soltanto il desiderio a raggiungerla e realizzarla. In Libertà.
* Carmelo Fucarino, siciliano di Prizzi, dopo essersi laureato in lettere classiche nell’Università di Palermo, ha insegnato lingua e letteratura latina e greca presso il Liceo classico «G. Garibaldi» della stessa città. Sensibile alla poesia, ha pubblicato liriche e dato contributi a riviste del settore letterario italiano, svolgendo ha svolto un’ampia e continua attività di saggista nel campo degli studi classici. Oggi ha ampliato il suo campo di indagine alla storia locale all’etnologia e alle tradizioni popolari siciliane.