Ci sono persone che trovi naturale che invecchino e muoiano, altri che invece ti sembra impossibile siano destinate a lasciarci. Umberto Eco appartiene alla seconda categoria. Aveva 84 anni, eppure per me continuava a essere lo studioso colto e onnivoro che si era occupato per primo in Italia di mass media e televisione, che aveva affrontato con le stesso piglio serio e divertito argomenti alti e bassi, che ci aveva messo tutti davanti alla necessità di sfrondare la cultura dagli inutili paludamenti e dalla vecchie chiusure accademiche.
Un eterno giovincello, che accoppiava a un’erudizione sconfinata una inesauribile curiosità verso le cose del mondo. Che sorrideva sotto i suoi baffi pronto all’ennesima provocazione creativa.
Aveva nel tempo collaborato con i più diversi personaggi e mondi culturali (per esempio quello musicale con Luciano Berio nel centro ricerca della RAI dove aveva lavorato per qualche anno) senza che niente gli sembrasse estraneo. In questo assomigliava a un altro inesauribile vecchio scomparso pochi giorni fa, Eugenio Carmi, un pittore e grafico straordinario, che fra l’altro con Eco aveva collaborato disegnando le fiabe che lui aveva scritto.
Che poi il successo del grande pubblico sia arrivato con i romanzi, e in particolare con quel fenomeno clamoroso che fu Il Nome della Rosa, non può farci scordare che anche la capacità di giocare su registri diversi di quel testo nasceva dal lavoro dello studioso e dalla vivacità dell’eterno ragazzo.
E a me, confesso, sembrò un giusto contrappasso che trionfasse con un romanzo tradizionale, lui che aveva fatto parte, immagino con la solita ironia, dell’avanguardia rappresentata dal Gruppo ’63.
Mi colpisce ricordare, oggi che sono a New York, come sia stata l’America a farci incontrare la prima volta: l’avevo infatti conosciuto trent’anni fa a Firenze quando, giovane direttore dell’Istituto Gramsci Toscano, l’avevo invitato a partecipare a un convegno sul mito americano nella cultura italiana.
Speravo di poterlo invitare di nuovo qua. Magari stavolta a parlare di Italia. Avrei preferito che fosse stato un qualsiasi altro motivo a impedirmelo.
Giorgio van Straten, scrittore e curatore di eventi culturali, dalla scorsa estate è il direttore dell’Italian Cultural Institute di New York.