Dopo interminabili mesi di scontro, la questione del cosiddetto “Travel Ban” si è conclusa con una netta vittoria dell’amministrazione Trump. Martedì, la Corte Suprema ha infatti confermato la costituzionalità del provvedimento, mettendo la parola fine a una diatriba che aveva spaccato in due l’America e che continuerà a far discutere nelle prossime settimane.
Introdotto per la prima volta all’inizio del 2017, l’ordine esecutivo in questione ha generato nella sua prima versione un’ondata di proteste, nonché una situazione di caos nella sua applicazione concreta. Per tali motivi è stato riscritto due volte, e nell’ultima variante (quella presa in esame dai giudici) vieta l’ingresso nel territorio americano ai cittadini provenienti da Libia, Iran, Somalia, Siria, Yemen, Corea del Nord e Venezuela.
Il tweet del Presidente è arrivato puntuale a suggello della sentenza: “la Corte Suprema conferma il Travel Ban di Trump. Wow!”, ha cinguettato entusiasta The Donald, affermando come la decisione rappresenti una vittoria per il popolo americano e un “momento di profonda rivincita” per le politiche migratorie del suo governo.

Dall’altra parte della barricata, i commenti di alcuni esponenti del partito democratico sono stati di tenore opposto. Il deputato Keith Ellison, celebre per essere stato il primo musulmano eletto al Congresso, ha dichiarato che “la discriminazione religiosa non rientra nell’autorità del Presidente”, aggiungendo come la decisione stia “semplicemente ignorando cosa il Presidente sta cercando di fare”.
A dire la loro non sono però solo esponenti politici. Un’aspra critica è giunta anche da Sonia Sotomayor, giudice supremo fino all’ultimo ostile alla conferma del Travel Ban, secondo cui “la Storia non guarderà con favore” alla scelta di ieri. Nell’esprimere il suo dissenso, Sotomayor ha paragonato la sentenza alla Korematsu v. United States, decisione con cui nel 1944 la Supreme Court avallò l’internamento dei giapponesi presenti sul territorio americano durante la seconda guerra mondiale.
Accusa rigettata con forza dal Giudice Capo John Roberts, secondo cui “qualunque sia il visibile vantaggio retorico nel sollevare il caso Korematsu”, quella decisione “non ha nulla a che fare con questo caso […] È totalmente inadeguato comparare quell’atto moralmente ripugnante con una politica formalmente neutrale che vieta il privilegio di essere ammessi [negli USA, ndr] a certe categorie di stranieri”.
La votazione finale sul provvedimento ha spaccato in due la Corte, che si è espressa a favore con una esigua maggioranza di 5 a 4.
Le motivazioni alla base della sentenza, espresse da Roberts, sono state chiare. Nel ribadire la legittimità del provvedimento sulla base delle competenze governative in tema di sicurezza nazionale, Roberts si è finalmente pronunciato sulla presunta natura discriminatoria del Travel Ban, negandola.
Chi avversava il decreto, invece, lo riteneva incostituzionale non solo per il suo contenuto attuale (che ha incluso nel divieto anche paesi a maggioranza non musulmana), ma partendo dalle affermazioni anti-islamiche pronunciate da Trump in campagna elettorale. Prima di essere eletto, il Presidente aveva infatti annunciato di voler vietare l’ingresso negli USA a tutti i musulmani, a prescindere dallo stato di provenienza.
La tesi contraria al Travel Ban, di carattere politico e non giuridico, era stata abbracciata entusiasticamente da quasi tutti i media mainstream a stelle e strisce, che hanno rifiutato di spiegare in modo obiettivo all’opinione pubblica i termini della questione. Stando alle loro sconclusionate analisi, l’incostituzionalità era palese.
Da queste colonne, nel nostro piccolo, avevamo provato in tempi non sospetti a fare un’analisi più equilibrata, separando la retorica trumpiana e la legittima opposizione alle sue politiche migratorie, dalla lettera della legge. La nostra conclusione era che quest’ultima sembrava favorire l’inquilino della Casa Bianca, che oltre ad avere indubbie competenze in materia sancite dall’Immigration and Nationality Act del del 1952, aveva incluso nel suo divieto solo alcuni (e non tutti) i paesi a maggioranza musulmana nel mondo (tra l’altro gli stessi già classificati come “a rischio” sicurezza in un precedente provvedimento di Barack Obama). Tali evidenze cozzavano formalemente con il carattere discriminatorio del provvedimento annunciato in campagna elettorale.
Per dirla in parole povere: il paventato provvedimento palesemente anti-islamico del Trump candidato era ben diverso dal provvedimento del Trump presidente su cui la Corte si è pronunciata ieri. Al riguardo, nella sentenza il Giudice Capo sembra ricalcare tale ragionamento: “la questione non è se denunciare o meno le affermazioni [di Trump, ndr]. È invece il significato di quelle dichiarazioni nel rivedere una direttiva presidenziale, neutra nella sua forma, affrontando la questione riguardante il nucleo della responsabilità esecutiva”.
Insomma, altro che scandalo: Il ragionamento, dal punto di vista giuridico, non fa una piega. Come ha detto esplicitamente Roberts, la Presidenza (cioè l’istituzione) va tenuta separata dal Presidente (inteso come persona specifica che la ricopre). Affermazioni quasi banali in una democrazia, che però l’America (soprattutto quella dei mezzi di comunicazione) sembra aver dimenticato dopo l’elezione di Trump.
Ciò non vuol dire che il Travel Ban non sia contestabile, inutile, financo odioso. Opporvisi rientra nel quadro di una normale e legittima dialettica politica, ma la formale costituzionalità è un’altra cosa.