Il nuovo governo Cinque Stelle-Lega passa indenne la prova della fiducia. Superato lo scoglio del Senato, ieri l’esecutivo ha incassato un altro “sì” a Montecitorio, che ha certificato una larga maggioranza alla Camera. I voti favorevoli sono stati 350, i contrari 236, mentre ad astenersi “benevolmente” sono stati 35 deputati, quasi tutti appartenenti al gruppo di Fratelli d’Italia.
Il presidente del consiglio ha esordito al Senato con un discorso dalla lunghezza record (è durato 1 ora e 11 minuti), in cui ha tracciato le linee programmatiche presenti nel cosiddetto “contratto di governo”, toccando alcuni temi cari alle forze politiche che lo sostengono: lotta al “business” dell’immigrazione, riforma del conflitto d’interessi e delle norme sulla corruzione, rapporti dialettici con l’Europa.
Un intervento dignitoso, compassato, forse a tratti cattedratico, ma in cui non sono mancate citazioni colte (dal Discorso su Puskin di Dostoevskij al filosofo Hans Jonas, dal sociologo Ulrich Beck a Philip Kotler).
Il fulcro dell’orazione è stata l’orgogliosa rivendicazione del carattere “populista” e “antisistema” del governo, inteso come vicinanza alle istanze popolari: “Le forze politiche che integrano la maggioranza del governo sono state accusate di essere populiste e anti-sistema, queste sono formule linguistiche che ognuno è libero di declinare. Ma se il populismo è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente, e prendo spunto dalle riflessioni di Dostoevskij, se anti-sistema significa mirare a introdurre un nuovo sistema che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere, bene, queste forze politiche meritano entrambe queste qualificazioni”, ha detto Conte.
Le critiche dei giornaloni al discorso sono state furiose e in parte ingiustificate: “troppo lungo”, “troppo generico”, “vuoto”, addirittura “pericoloso”.
Gli strali dei commentatori di professione sono stati però inversamente proporzionali al gradimento che esso suscitato fuori dalle loro redazioni, ormai incapaci di interpretare il clima che si respira nel paese, disposto a valutare senza pregiudizi il nuovo esecutivo alla prova dei fatti.
Quanto alle repliche a Conte, la più efficace in aula è risultata quella di Matteo Renzi: “Noi non occuperemo mai i banchi del governo, mai la poltrona del presidente del Senato, mai insulteremo i ministri, mai attaccheremo le istituzioni del Paese al grido mafia, mafia, mafia”, ha tuonato il senatore del PD. Il suo è stato però un discorso di commiato, dato che presto si darà all’attività di conferenziere in giro per il mondo.
Nel 2014, proprio Renzi sedeva al posto di Conte. Mani in tasca e atteggiamento strafottente, l’allora leader prometteva di abolire il Senato, salvo poi sedervi appena quattro anni dopo.
Paradossi della politica a parte, il successivo dibattito alla Camera dei Deputati è risultato molto più movimentato e polemico, ma in un certo senso ciò continua a favorire il nuovo esecutivo. Le parole esagerate di Delrio, che ha agitato il feticcio della dittatura definendo Conte “fantoccio”, sono infatti la migliore assicurazione sulla vita del governo giallo-verde.
La seduta è proseguita tra sterili polemiche e stucchevoli contestazioni, come quella scatenata jin seguito alle dichiarazioni del premier sul conflitto d’interessi, sulle quali lo stesso Conte ha fatto subito dopo marcia indietro dicendo di “essere stato frainteso”.
Unica pecca inquietante di Conte durante il dibattito alla Camera è stato il breve scambio “rubato” dalle telecamere con il vicepremier Di Maio, in cui il presidente sembrava quasi chiedere il “permesso” (negato dal leader pentastellato) su una sua affermazione. Episodio che mette in luce la sua sostanziale debolezza rispetto agli azionisti di maggioranza del governo
In tale contesto, l’unica nota singolare è stata la dichiarazione di voto del critico d’arte Vittorio Sgarbi (Forza Italia), che dopo aver insultato in ogni modo Di Maio nei mesi scorsi, ha deciso di votare la fiducia all’esecutivo, forse pensando di emulare lo storico “vado verso la vita” di dannunziana memoria. “Dove c’è il disordine io prospero”, ha affermato, con un coup de teatre che ha rotto la monotonia della seduta.
Superate le polemiche domestiche di ieri, il prossimo esame, per Conte, sarà la riunione del G7, che si terrà a partire da domani in Canada. In quella sede i dossier scottanti non mancheranno, dai dazi introdotti dagli Stati Uniti su acciaio e alluminio (e le eventuali contromisure dell’Unione Europea) al nucleare iraniano, passando per l’immigrazione.
L’auspicio, al di la delle opinioni politiche, è che su alcuni di questi temi l’Italia giochi “di sponda” con gli USA, provando a schivare gli effetti collaterali dello scontro economico in corso tra gli Stati Uniti e la Germania. Senza compromettere la propria appartenenza alla compagine europea, ma provando a far valere, una volta tanto, i propri interessi particolari. Al riguardo Conte ha già dichiarato che “la prima posizione dell’Italia sarà farsi conoscere, la seconda farsi rispettare”. Ma tra le parole e i fatti c’è un abisso.
Il fine ideale sarebbe quello di tornare a porsi come interlocutore autonomo di Washington, promuovendo per esempio il dialogo con la Russia e facendo da intermediari in alcuni scenari difficili ma tradizionalmente legati al nostro paese, come il Mediterraneo. Vedremo se nei prossimi mesi il nuovo esecutivo si dimostrerà all’altezza della sfida.