Nei giorni scorsi l’interminabile crisi siriana è tornata al centro della scena. Dopo gli attacchi chimici a danno della popolazione civile nella città di Duma, il presidente Donald Trump ha minacciato un massiccio intervento militare, i russi si sono dichiarati pronti a rispondere colpo su colpo e l’intera regione sembra essere ripiombata nel caos.
Per fortuna, nelle ultime ore i venti di guerra si sono calmati: Washington e Mosca si attestano per il momento su posizioni attendiste. Siamo tuttavia ancora sull’orlo di un crinale scivolosissimo, in cui i progressi raggiunti qualche mese fa con la sconfitta dell’ISIS e il “passo di lato” del presidente USA in quello scenario, potrebbero essere vanificati da un momento all’altro.
Tutti i maggiori media mondiali, ovviamente, ne parlano. Ma una circostanza che colpisce è in molti casi la completa assenza di ragionevolezza di molti ambienti statunitensi “che contano”, all’indomani dell’attacco di Douma.
Come già successo un anno fa, in occasione del lancio missilistico “dimostrativo” attuato da Trump in Siria, l’establishment politico (democratico e repubblicano), e molti commentatori televisivi hanno lanciato un coro è unanime: bisogna intervenire massicciamente, fermare Assad e poi… beh, quello che succede dopo non è all’ordine del giorno.
All’analisi critica sui pro e i contro di un intervento così rischioso (a partire dalla sua aderenza o meno agli interessi strategici americani) e all’indagine approfondita sulle vere responsabilità del criminale attacco chimico (le cui immagini hanno giustamente indignato il mondo civile), si è sostituito un giudizio affrettato, spesso emotivo più che politico.
Conviene quindi farsi alcune domande e mettere in risalto tutti i dubbi emersi in questa complicata situazione.
Chi è il responsabile dell’attacco?
Ancora non lo sappiamo, anche se molti giornali sembravano dare per scontata la versione proveniente da organizzazioni di “ribelli” presenti sul territorio, che ovviamente indicavano il colpevole in Bashar Al Assad. Dello stesso avviso era anche Trump, che ha minacciato l’intervento militare proprio sulla base di tale assunto. Tuttavia, persino il governo americano non ha certezze e in una recente intervista il segretario alla difesa James Mattis è apparso dubbioso sulle responsabilità. Le fonti governative siriane e russe, al contrario, addossano le colpe in modo generico ai servizi segreti “occidentali”.
Su invito dello stesso governo di Damasco, nei prossimi giorni gli esperti dell’OPAC (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) si recheranno sul luogo per condurre un’indagine e potremmo attendere più di un mese prima di avere tra le mani qualche informazione certa al riguardo.
Una domanda, però, sorge automatica: cui prodest? Che interesse avrebbe avuto Assad, che sta finalmente vincendo la guerra civile e riprendendo il controllo del paese, a lanciare un attacco chimico rischiando una reazione americana? Porsi la domanda non è affatto un modo di scagionare il dittatore, ma di riflettere razionalmente sulla questione.
Intervento controproducente
A prescindere dalle responsabilità, infatti, la storia recente dimostra come il cosiddetto regime change, portato avanti dagli ultimi tre presidenti americani (democratici e repubblicani) nelle loro avventure all’estero, non ha mai prodotto i risultati sperati. Dall’Iraq alla Libia, passando per le cosiddette “primavere arabe”, la rimozione di leader secolari (seppur autocratici) in Medio Oriente, ha sempre creato terreno fertile per il sorgere di pericolosi estremismi religiosi, destabilizzando interi paesi.
In breve, la caduta di Assad porterebbe a un vuoto che potrebbe essere colmato da personaggi ben più dannosi di lui. Negli scorsi mesi, tra l’altro, Trump sembrava aver abbandonato l’idea di deporre il dittatore, tanto da annunciare un ritiro del personale militare presente nell’area, dopo la sconfitta sul campo dell’ISIS. Eppure, negli ultimi giorni, la Casa Bianca ha effettuato un’inversione a U sul tema. Perché?
Trump in un vicolo cieco
Il presidente, negli ultimi tempi, è sotto assedio. Sono almeno tre le questioni che per ora lo preoccupano: l’inchiesta di Mueller sul cosiddetto “russiagate”, la recente perquisizione dello studio del suo avvocato (legata a presunti pagamenti a una pornostar e a una modella di Playboy in cambio del silenzio) e le nuove rivelazioni dell’ex capo dell’FBI James Comey, che martedì pubblicherà un libro al vetriolo contro l’inquilino della Casa Bianca. In una intervista a ABC News, Comey ha dichiarato di aver ricevuto a suo tempo dal presidente l’ordine di indagare sul noto dossier elaborato da un ex agente segreto britannico (pubblicato a febbraio su Buzzfeed e ritenuto inattendibile), secondo cui Mosca sarebbe in possesso di alcuni filmini compromettenti su Trump. Di fronte alle insinuazioni dell’ex capo dell’FBI, The Donald ha risposto al suo solito, definendo Comey “un viscido”.
Ebbene, secondo alcuni, le scottanti questioni di politica interna avrebbero spinto il commander in chief a trovare un “diversivo”, e l’escalation siriana sarebbe stata un comodo espediente per alleggerire le pressioni a cui è sottoposto in patria.
Accettabile o meno che sia, tale ipotesi non spiega fino in fondo né l’inversione di marcia di Trump, né l’impeto interventista dell’establishment politico a stelle e strisce in tutte le recenti crisi internazionali.
Pensiero unico
A ben vedere, la schizofrenia della politica estera americana degli ultimi vent’anni ha radici ben più profonde. Le strategie che continuano a imperare all’interno del Dipartimento di Stato (oltre che nei think thank e nel mondo accademico), sono infatti figlie di una mentalità tipica della guerra fredda, ancora non completamente sostituita da una diversa visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo.
Tale “pensiero unico” ha risucchiato anche Trump, e la recente nomina di Bolton al ruolo di consigliere alla sicurezza non fa che gettare benzina sul fuoco.
Si è così arrivati a scardinare due dei più popolari capisaldi del programma elettorale trumpiano: il non interventismo e il riavvicinamento a Mosca. A differenza che nelle coste, dove persino la società civile è stata contagiata da una ridicola “russofobia”, l’americano medio non sente la Russia come una minaccia agli interessi del suo paese. D’altronde, il Cremlino non è più in grado di competere in alcun modo con la potenza americana (né dal punto di vista militare, né da quello economico o culturale), anche se viene continuamente additata come “una minaccia mortale” agli interessi a stelle e strisce.
Il presidente è stato di conseguenza dipinto dai media (la cui credibilità è non a caso ai minimi storici) come un “fantoccio” di Putin e come un “nemico della patria”. Si tratta di un clima pericoloso, che unito alle note intemperanze del presidente potrebbe portare a conseguenze imprevedibili.
Il confronto con i russi in Siria, e prima ancora l’ingerenza nella guerra civile siriana con l’appoggio alle fazioni ribelli (spesso islamiste) rientrano insomma in questa profonda crisi d’identità degli USA usciti dalla guerra fredda. E fino a quando il “pensiero unico” non verrà scardinato, siamo destinati a subirne le drammatiche conseguenze.