La statua argentata di Andy Warhol presidia l’angolo nord ovest di Union Square. Realizzata da Rob Pruitt, sorge nei pressi di due delle sedi storiche della Factory, il suo studio-fabbrica-covo, quella del Decker Building, al 33 West della grande piazza nel cuore di Manhattan, dove l’artista venne ferito dai colpi di pistola sparatigli dalla femminista radicale Valerie Solanas, e quella successiva, all’ 860 Broadway. Non lontano da qui, altri luoghi che inevitabilmente richiamato il mondo di Warhol e della cultura pop, dal Chelsea Hotel, dimora tra l’altro di tanti artisti che bazzicavano la Factory, al Max’s Kansas City, dove si esibiva la band che aveva lanciato nel 1966, i Velvet Underground.
Amato dai più, e a volte detestato, Andy Warhol è un’icona, simile a quelle delle sue tele serigrafate, da Mao a Marilyn, da Mick Jagger a Liz Taylor. “Oggi che tutte le sue profezie si sono avverate – si chiede Andrea Mecacci nella quarta di copertina di Dopo Warhol, volumetto appena pubblicato da Donzelli nella collana Saggine – in che punto delle nostre vite rimane visibile la linea che stabilisce una differenza tra il pop e il quotidiano?”. Probabilmente, se di differenza si può parlare, essa non può che prendere corpo lontano dalla merce, e dall’esperienza estetica che la merce trascina con sé. In ogni altro territorio, pop e quotidiano sono inesorabilmente mescolati.

Quando vidi la prima edizione de Il Grande Fratello (per gli italiani, quella del 2000, con il mitico, e sfortunato, Pietro Taricone “O’ guerriero”), mi dissi che sì, Warhol aveva vinto su tutta la linea. La sua profezia sul fatto che in futuro chiunque sarebbe stato famoso per 15 minuti si era avverata. I social network hanno spostato l’asticella addirittura un po’ più un là. Oggi per appagare il bisogno di essere stimati, amati, o perlomeno riconosciuti, non è nemmeno necessario diventare protagonisti di una trasmissione televisiva. Si può ottenere un risultato uguale, o anche maggiore, con un blog, un profilo FB ben fatto, un video postato su YouTube, una foto su Instagram.
Tutto questo, con l’estetica – materia che Mecacci insegna all’Università di Firenze – ha ovviamente molto a che fare. I brevi saggi contenuti nel suo libro propongono un percorso in tre tappe – il pop, il postmoderno e l’estetica diffusa – in cui è sempre il dato estetico a fare da filo conduttore. L’assunto di fondo è che l’estetica non è più confinata all’arte ma è sempre più parte della vita di ogni giorno. Il che è stato perfettamente esemplificato dalla produzione di Warhol, che approdò alla pittura provenendo dal mondo della pubblicità e che fece di una lattina di zuppa (un manufatto industriale di larghissimo consumo) il suo soggetto più celebre.
I primi due capitoli sono dedicati al pop, contrazione di “popular”, definizione nata in Inghilterra con l’Indipendent Group negli anni ’50 ma che è passata quasi subito ad identificare la progressiva americanizzazione dell’arte, che l’Occidente ha sperimentato a partire dal Secondo dopoguerra. Sua caratteristica fondamentale: essere l’espressione della società dei consumi, ma senza il carattere polemico che il confronto dell’arte con il mercato capitalista aveva assunto in passato. Warhol non critica niente: vuole raccontare ciò che conosce meglio. E lo fa attraverso opere accessibili, apparentemente “facili”, lontane anni luce dall’espressionismo astratto di un Pollock.

Qualche altro connotato del pop: prevalenza della superficie, del “fuori”, sulla profondità, o sul “dentro”, dell’artificiale sul naturale, dell’immagine sul logos. La pop art non ha lasciato grande letteratura, Warhol nemmeno una produzione teorica elaborata, piuttosto i suoi diari pieni di gossip, i suoi fulminanti aforismi e il romanzo a, A Novel, una trascrizione di nastri registrati. Il pop predilige ciò che è figura e colore, fumetti, scatole, confezioni e ritratti. Ma anche la sessualità nuova o ambigua (gay e trans), ed il femminile (per Mecacci la vera erede spirituale di Warhol è stata Madonna).
Il pop, infine, dialoga con la classicità, per il tramite di Winckelmann, liquidando l’atteggiamento sentimentale, romantico, centrato sull’io e l’emotività, delle avanguardie che lo avevano preceduto, inseguendo un’idea di bellezza condivisa, mediatica, riconoscibile, che se necessario passa per il bisturi del chirurgo plastico (oggi per Photoshop). Segue una sezione sul postmoderno, di cui vengono analizzati due aspetti: il kitsch e il falso (in verità solo due elementi di un tutto molto più ). Infine, un terzo capitolo sull’estetica diffusa. Ricapitolando la tesi di fondo: “Più che le scelte politiche o morali, sono i gusti condivisi, che confluiscono nelle strategie del consumo materiale e immateriale, a unire le pratiche quotidiane degli uomini”.
Questa consapevolezza può condurre a letture differenti della cultura pop e dei suoi derivati. Ad esempio ad una lettura critica, che denuncia la falsificazione propria dei processi di estetizzazione (viviamo in un mondo costruito, artificiale, falso, viviamo nel mondo del Truman Show); oppure ad una lettura che, sulla scia di Hegel, constata la morte dell’arte (non perché sconfitta da qualcos’altro ma perché definitivamente sciolta nei processi più generali di produzione estetica). Ma anche ad una lettura che considera il carattere indirettamente democratico del pop prima e del postmoderno poi, con il loro porre fine alla divisione gerarchica fra “arti belle” e “arti minori”, fra il museo, destinato ad ospitare opere immortali, e il muro dell’ufficio a cui appendere una stampa o una serigrafia (se vogliamo anche fra la tradizione occidentale, assunta come superiore, e tutte le altre, riprendendo il filo delle sperimentazioni iniziate dalle avanguardie storiche).
Naturalmente oggi la postmodernità pone anche altri problemi. Ad esempio: dove si collocano nel suo panorama l’11 settembre 2001, o il muro fra Stati Uniti e Messico, solo per menzionare due fatti in tutto e per tutto anti-pop, nella loro intima essenza? Come reagisce la civiltà estetica alla distruzione di Palmira? Cosa risponde agli attentatori del Bataclan, cioè a chi la cultura pop vorrebbe spazzarla via a mitragliate?
Per non dire del “mistero Warhol”, posto che l’artista avrebbe rifiutato il suo accostamento all’idea di mistero, ribadendo che nella sua opera tutto era manifesto, accessibile. Warhol appare oggi ad un tempo straordinariamente popolare, straordinariamente preveggente e difficile da maneggiare. Con lui si corrono sempre dei rischi. Ad esempio di soccombere alla critica marxista (quella di Fredric Jameson su tutte), e quindi di considerarlo niente più che un cantore delle “magnifiche sorti e progressive” del tardo-capitalismo, se non della globalizzazione (“la cosa più bella di Firenze è il Mc Donald’s” non è in effetti uno splendido spot per la globalizzazione, pur con tutta la sua carica di sarcasmo?).

Warhol però è stato molte cose. E certamente è stato molto più di questo. La sua luce ancora si riverbera sul nostro presente, e lo illumina. Il rischio di una sua storicizzazione, evocato nelle pagine di Mecacci, sembra ancora basso; prova ne è che il trentennale della sua morte (22 febbraio 1987) è passato praticamente inosservato, non perché sia sopravvenuto l’oblio, ma perché Warhol lo percepiamo come vivo e vegeto. Semmai un rischio lo corrono tutti coloro che sono venuti dopo: quello di sembrare dei meri epigoni. C’è anche un’altra cosa da puntualizzare. Nonostante il suo amore per le superfici scintillanti e le luci della ribalta, Warhol ha esplorato la wild side come pochi. Ai suoi esordi, scelse di circondarsi di una corte composta da personaggi stravaganti, bizzarri, spesso disturbati, decisamente anticonformisti; parliamo dei drop out della prima Factory, la cosiddetta “Silver Factory”, decorata da Billy Name con stagnola argentata, dei gigolò metropolitani raccontati in alcune delle sue pellicole underground e poi eternati nello splendido Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede, in italiano) di John Schlesinger, a sua volta ispirato al romanzo di James Leo Herlihy, dei trans e dei tossici cantati da Lou Reed, e così via. Senza dimenticare Edie Sedgwick, la modella-ereditiera che per qualche tempo – fino alla sua prematura scomparsa – rappresentò il suo alter ego femminile.
Prima dei vip di cui fece il ritratto nell’ultimo periodo, alcuni discutibili, come i membri della famiglia del dittatore di Persia Reza Pahlavi, c’è stato tutto questo. Un universo di volti, segni e di storie che non riflette precisamente l’estetica del centro commerciale e nemmeno quella della Trump Tower, quanto piuttosto quella dei bassifondi – sebbene artistici – della New York anni 60-70 . E, sì, anche quella dell’Empire State Building.
L’arte di Warhol, semmai, facendo incontrare “alto” e “basso”, le celebrità ritratte e riprodotte nei suoi quadri o messe sulla copertina della sua rivista Interview e le creature genialmente schizoidi che transitavano per il divano della Factory dei tempi d’oro, da Nico a Brigitte Berlin, da Joe Dallessandro a Holly Woodlawn, ha dato corpo all’attitudine orizzontale, inclusiva, implicitamente tollerante (qualcuno preferirebbe dire cinica) del postmoderno. Secondo me, gliene siamo eternamente debitori, specie se consideriamo il ritorno prepotente degli ismi a cui stiamo assistendo (fanatismi, razzismi e fascismi nelle loro varie declinazioni). Ma soprattutto, Warhol non è stato un profeta, né un vate, men che meno un maestro. E’ stato uno specchio. E, come recita un suo celebre aforisma: “Sono certo che guardandomi allo specchio non vedrei nulla. La gente dice sempre che sono uno specchio, e se uno specchio si guarda allo specchio che cosa può trovarci?“.