Luca Guardabascio è un regista che con umiltà e passione è riuscito a rispolverare un cinema quasi messo da parte in Italia e a volte poco conosciuto nel resto del mondo. Con tantissimi lavori e riconoscimenti alle spalle, il prossimo 21 Febbraio Guardabascio vedrà proiettato il suo ultimo docu-film “Are the Passengers Saved?” al Chinese Theatre di Los Angeles. Scopriamo, attraverso le sue parole, il viaggio iniziato da Salerno e giunto fino agli States grazie a qualcosa che va oltre al suo innegabile talento: il suo amore per il cinema e la cultura.
Quando e come è nata la tua passione per il cinema?
“Ogni estate andavamo al mare dai miei zii a Pedaso, nelle Marche. C’era un cinema parrocchiale che dalle 21 proiettava pellicole vecchie di qualche anno, un cineforum in piena regola con due spettacoli serali. Il biglietto costava 500 lire, ma noi conoscevamo il bigliettaio che ci aveva detto: “Se venite all’intervallo tra il primo e il secondo tempo, vi faccio entrare gratis e poi potete restare per lo spettacolo successivo.” Quella sera di luglio proiettavano “Serafino” di Pietro Germi con Adriano Celentano, di cui vidi tutto il secondo tempo. Prima del nuovo spettacolo mandarono un documentario della Disney sugli orsi, una comica di Harold Lloyd e poi ancora la scanzonata storia di Serafino. Ne rimasi folgorato. Divenni un fan di Celentano ma soprattutto un fan del cinema. Quell’estate, mentre i cuginetti andavano al parco giochi, io obbligavo qualche adulto ad accompagnarmi al cinema. Ricordo: “Lo chiamavano Trinità” ma soprattutto “I figli del deserto” e “Muraglie” interpretati da Stanlio e Ollio, “Dove Vai in Vacanza?” e poi “La Ciociara”, “Superman” e l’insolita trama del film “L’Australiano” di Skolimowsky. Alla fine di quella proiezione eravamo rimasti solo io e mia nonna Leondina che dormiva. Non solo avevo scoperto il cinema ma anche quello che vedevano le masse, la sua magia, la sua narrazione, i suoi attori. Era il 1979, avevo appena 4 anni. Una volta a casa raccontai che avrei fatto l’attore nei film. Sì, l’attore, non sapevo ancora chi o cosa fosse il regista. Quella definizione la scoprii qualche stagione più tardi, quando al cinema del mio paese, Eboli, proiettavano “Toro Scatenato” di Martin Scorsese”.
Quali studi hai dovuto intraprendere per iniziare la tua carriera da regista?
“Studiare il Mondo, conoscere la vita e le persone, saper ascoltare e prendersi la vita con libertà e occhio critico. L’antropologia è importantissima in questo mestiere e non si può non studiare, conoscere, scoprire culture, viaggiare. Scrivere è fondamentale. Non si nasce Maestri ma solo con il sacrificio e lo studio si può arrivare a determinati livelli. Studiare, crescere, migliorare per capire fino a dove può spingersi il tuo occhio, la tua creatività. Ho tanti pezzi di carta, una laurea e un paio di Master in teatro, cinematografia, World Communication. Considero tutto necessario per comprendere che un posto nella Società possiamo prendercelo solo con il sacrificio. La fortuna è un’altra cosa, così come le raccomandazioni, entrambe hanno le gambe corte. Volere è potere e si deve lavorare per essere il Migliore. Io devo ringraziare i tanti Maestri che ho incontrato nella mia carriera da studente: Giuseppe De Santis, Nino Manfredi, Florestano Vancini, Carlo Lizzani, Bernardo Bertolucci, Mario Monicelli, Ugo Pirro e gli americani Gene Wilder, Stanley Donnen, Peter Bogdanovich, Allen Baron, Mike Stoller”.
Quali sono state le tue fonti di ispirazione tra registi e film sia italiani che esteri?
“Venendo dalla provincia non è stato molto facile avere tutto a disposizione, ma sono cresciuto nell’epoca dei video registratori e dei film a noleggio. A 9 anni il mio migliore amico Salvatore Calderone recuperò il VHS de “Il pianeta delle Scimmie” con Charlton Heston, che capolavoro. Avevamo scoperto la fantascienza e il colpo di scena e poco a poco passai ad autori più impegnati. A dodici anni io e i miei scrivemmo la prima sceneggiatura parodiando “Scarface” di Brian De Palma, la storia ruotava su uno spaccio di penne a sfera in grado di scrivere i compiti in classe da sole. Un boss, Tony Abbamonte, ne aveva il monopolio. L’ispirazione è un mix di commedia all’italiana, noir, grande cinema americano, nouvelle vague francese. Mi è servita molto la televisione fatta da Rod Serling e Alfred Hitchcock, i più grandi geni del cinema sia dal punto di vista mediatico, sia da quello che era la narrazione e lo sviluppo delle loro storie. Sono stato influenzato dai vari campi del Sapere come il cinema il naturalismo francese, il verismo Verghiano i (in letteratura) così come da certa letteratura americana (Steinbeck), italo americana (Tusiani e Telese) e afro americana (su tutti Richard Writght, Toni Morrison, Alex Haley) così come dalla beat generation. I concetti di autorialità e libertà, gli estremi di infanzia e vecchiaia sono i capisaldi di qualsiasi mio concetto cinematografico e credo che gli autori citati, siano quelli che hanno applicato la libertà alle arti che io cerco di percorrere”.
Hai citato grandissimi film e personaggi senza mai dare risposte scontate.
“Stanley Kubrick, Orson Welles, Chaplin, Fellini la o il neorealismo italiano sono contenitori troppo vasti, ma di sicuro tutti siamo debitori delle loro intuizioni. Citando questi nomi si parla di cinema tout court, io parlo di me che rimanevo le notti a guardare il ciclo di mostri della Universal, non andavo a scuola il sabato per vedere il Mr. Moto interpretato da Peter Lorre o passavo i pomeriggi a studiare le inquadrature perfette nei film di Jerry Lewis, le luci nei film di Siodmack, i colori usati nelle produzioni di Roger Corman o la recitazione degli attori che interpretavano i film di David Lynch e Jim Jarmush”.
Quali sono state le tappe più importanti della tua carriera?
“A 6 anni, l’incontro con la scrittura. Appena ho iniziato a scrivere, appena ne sono stato capace, ho capito che la scrittura doveva essere immagine, stimolare un pensiero tridimensionale. Il mio primo libro di favole è stato pubblicato quando avevo 7 anni e 4 mesi, se lo leggo oggi, credo sia pieno di riferimenti Disneyani. Dai 14 ai 19 anni, con la mia prima telecamera ho diretto e interpretato 123 film amatoriali che venivano distribuiti in VHS nel raggio di 40 chilometri. Si trattava per lo più parodie alla Gianni e Pinotto o stile Franco e Ciccio. Protagonisti di film come “La Madrina”, “Baccal Club”, “Amleto e il fido Yogurt” era questa insolita coppia formata da me e mia sorella con tante guest star di amici e parenti. Lì mi sono fatto le ossa con il mezzo cinema e ho anche avuto un discreto successo tanto che un mercato di copie in VHS pirata girava soprattutto tra Eboli e Campagna! A 19 anni, sono andato a Roma per frequentare Lettere e per studiare Cinema e Teatro. Roma, i film visti al cinema, le maratone organizzate dal giornale L’Unità presso il Cinema di Roma e non più i film in cassetta mi hanno fatto comprendere meglio il cinema d’autore. Lo studio approfondito di registi e La letteratura mi hanno portato a realizzare cortometraggi di livello superiore tanto che nel 1997 siamo stati insigniti con un nastro d’argento per la migliore produzione di corti in pellicola. Dal 1999 ho iniziato a girare saltuariamente programmi e piccole fiction per Rai 2 grazie al produttore Marco Foresi, e lì ho fatto una grande esperienza a intervalli irregolari durati circa 12 anni con circa 8.000 ore di trasmissioni prodotte e la realizzazione di una serie tv sui cambiamenti climatici “Task Force” girata in 32 paesi. Il mio primo lungometraggio “Inseguito” del 2002, un film che parla del delitto perfetto, premiato da Marsiglia a Sarayevo, sino a l’Havana e Lima. Da quel momento tutto mi è sembrato più bello e non sono riuscito a lasciare il set avendo prodotto, scritto e diretto almeno altri 20 lavori”.
Come è iniziata la tua carriera in America?
“Sono arrivato in America nel 2011 grazie alla Robert Morriss University di Moontownship, alle porte di Pittsburgh come visiting scholar con un progetto semplicissimo: raccontare la Storia d’Italia attraverso il cinema italiano. Non il solito cinema che gli americani conoscevano, quello degli autori, ma quello dei grandi attori di film con Clara Calamai, Vittorio De Sica, Gino Cervi, Amedeo Nazzari, Gasmann, Carlo Verdone, Totò per arrivare a Troisi. Sono felice di aver creato un precedente in alcune parti d’America dove sono passato, felice che alcuni studenti americani abbiano scoperto nomi a noi familiari, ma che ai ragazzi di Pittsburgh, Cleaveland, Detroit, Cincinnati o Philadelphia, non dicevano tanto. Pensiamo che l’America sia New York o Los Angeles, l’America che conosco è molto più grande, bella e curiosa con tante difficoltà e anche una profonda crisi. Non ho incontrato spesso il paese dei sogni, ma il paese curioso di conoscere un’altra cultura attraverso il cinema, per questo spero che l’America investirà sulla cultura, sulla lingua e sulle scienze umane. Sarebbe un grave danno fare tagli ulteriori in tal senso e perdere la Cultura che generazioni di Emigranti hanno faticosamente introdotto.
Chi mi ha portato in America è stato il regista Michael Di Lauro, direttore del media art deparment presso la RMU. Nel 2011 ho preso parte ad un suo progetto sull’emigrazione italiana dal titolo “La mia strada”, nel frattempo ho girato un documentario sulle case museo dell’immenso Edgar Allan Poe. Un piccolo lavoro girato tra Boston, New York, Philadelphia, Baltimora e Richmond che mi ha fatto capire come funziona il cinema in USA e mi ha fatto conoscere tanta gente. Ho conosciuto gli attori Greg Palillo e Don Most, ho scambiato idee con il produttore dei Sopranos David Chase, ho scritto un libro sull’emigrazione Pietre sull’Oceano. La storia di Giovanni Esposito e Joe Petrosino che è stato un successo editoriale. Questo libro ambientato tra il 1861 e il 1980 mi ha aperto le porte presso le comunità italiane con cui ho collaborato, come la Dante Alighieri del Michigan, la Wayne State, la Società della gioventù Quagliettana, la federazione Campana, con il console Maria Luisa Lapresa e tutti i diplomatici e professori straordinari che lavorano in America per amore della cultura italiana. Ho incontrato questi splendidi italo americani che con passione portano avanti le nostre eccellenze e che dovrebbero essere il nostro orgoglio”.
In cosa differisce, per un regista, il lavoro in Italia e all’estero?
“E’ una questione personale e di come ci rapportiamo noi con il sistema. Il sistema tra i due Paesi, ovviamente è agli antipodi, noi produciamo storie migliori, loro film migliori, io sto cercando di collocarmi giusto al centro. In Italia è tutto molto più difficile perché il sistema è decisamente complicato da scardinare perché ci sono troppi filtri. Magari un bel film in Italia verrà visto da pochi, in America c’è più possibilità perché il cinema è industria, non politica. Sono sempre stato convinto che se una politica debba esserci, debba basarsi su una politica degli autori. Oggi però il cinema esclusivo degli autori non funziona, quindi ogni regista deve essere un manager, un agente, un produttore di sé stesso. Prima di fare questo però bisogna comprendere i propri limiti. Io mi vergognerei di portare al cinema il 10% dei film italiani che mi è capitato di vedere negli ultimi 5 anni. In Italia siamo convinti che gli spettatori non apprezzino il buon cinema, e invece il calo dei biglietti staccati deve essere un segnale”.
Gli italiani hanno sicuramente una cultura e una storia cinematografica alle spalle notevole: quale pensi sia il contributo più grande che possiamo dare al cinema americano e, più in generale, agli americani? E, viceversa, cosa dovremmo attingere da loro?
“Noi possiamo insegnare come si sviluppano le idee in un contesto dolce amaro. La vita è fatta di questi concetti e il cinema italiano sa fotografare l’animo umano in un contesto sociale ben preciso. La crisi è un’occasione per far capire chi siamo e renderci unici. La tragicommedia al cinema l’abbiamo inventata noi, la commedia all’italiana è un patrimonio che stiamo disperdendo. Ripartiamo dal nostro cinema migliore e ricordiamoci che noi abbiamo avuto registi moderni come Antonio Pietrangeli, Franco Brusati, autori come Ruggero Maccari, Ettore Scola, produttori come Franco Cristaldi, Sergio Amidei, Peppino Amato e Angelo Rizzoli, scrittori che potrebbero essere attualizzati e che ci hanno descritto nel profondo come Luciano Mastronardi, Cesare Pavese, Ignazio Silone, Giuseppe Marotta, Grazia Deledda per non parlare di Edmondo De Amicis. Noi abbiamo dettato i canoni estetici, cinematografici e di genere grazie a Visconti, Pasolini, Fellini, Antonioni, Bertolucci. L’ultima grande invenzione del cinema italiano è stata Sergio Leone e questo accadeva 50 anni fa”.
Andrea Doria, un nome a cui devi tantissimo visto il successo del documentario “Are the Passengers Saved?” di cui sei regista. Come sei entrato a far parte di questo progetto?
“Stavo facendo le ricerche per il libro Pietre sull’Oceano. La storia di Giovanni Esposito e Joe Petrosino, durante una serata per conoscere la comunità italiana ho conosciuto Pierette Domenica Simpson, una professionista e un esempio di donna moderna piena di entusiasmo e di passione, una sopravvissuta alla tragedia che ha dedicato i suoi ultimi anni per raccontare la verità sul più grande salvataggio in mare della storia. Grazie a Pierette e al fotografo Richard Haskin con i tanti collaboratori italiani e americani, abbiamo lavorato e oggi il film è stato visto da migliaia di spettatori con una ventina di proiezioni pubbliche, raccogliendo riconoscimenti internazionali di grande prestigio come Miglior Film alla 70 edizione del Festival del Cinema di Salerno e il premio del pubblico al Roayl Oak. Personalmente ho già ritirato 4 premi come regista e Pierette diversi riconoscimenti come produttrice e autrice. Il riscontro è stato positivo perché per la prima volta si racconta la verità sul Doria partendo con un prodotto onesto e indipendente. Il film è stato visto in 13 stati Americani, in circa 40 scuole e al Parlamento d’Italia. Presto saremo a Los Angeles al Losangeles Italia organizzato da Pascal Vicedomini, il film verrà proiettato il 21 febbraio presso il Chinese Theatre sull’Hollywood Boulevard, saremo un pugno di film documentari realizzati in Italia e tutti faremo un grande in bocca al lupo a quel capolavoro che è “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi per la notte degli Oscar. Avere un riconoscimento dalla Academy farebbe capire che il documentario Italia è vivo e sta bene, riuscirà a farci avere più spazio nelle sale di casa nostra”.
Cosa vuol dire per te trovarsi di fronte a un sogno come Hollywood e in qualche modo farne parte con questo progetto?
“Sono cresciuto con i film di Hollywood, ho sempre lavorato per avere la soddisfazione più grande e un giorno sfiorerò lo zio Oscar anche io. Dobbiamo pensare in grande. Entrare ad Hollywood con un film però è davvero un sogno, spero di riuscire a condividere le mie idee, le storie all’italiana con più persone possibile e spero di riuscire a spostare i capitali Americani in Italia con il mio prossimo lavoro. Al festival a cui parteciperò a febbraio ci sarà un omaggio ad uno dei miti italo americani Dean Martin, anche per questo sono super felice di essere presente”.
Hai sempre avuto il sogno americano o il tuo era unicamente il sogno cinematografico?
“Ho sempre avuto il sogno di fare film americani in Italia, ho sempre avuto il sogno di fare film italiani in America. Ho sempre creduto che le due culture possano conciliarsi lontano dagli stereotipi. L’importante non è far cinema, l’importante è far sentire la propria voce, lasciare un metodo, dare una direzione ed arrivare a più gente possibile. Bisogna prendere storie piccole e renderle grandi. Far conoscere i luoghi oscuri e quelli poco probabili, contaminarsi, ma questo lo si può fare solo con la gavetta, la cultura e l’umiltà”.
Progetti per il futuro?
“Dovrò realizzare un film con il produttore e avvocato Michael Gagleard, un film sugli avvocati politicamente scorretto. Sto scrivendo un film per Michael Di Lauro tra seconda guerra mondiale ed emigrazione. Inoltre ho idea di fare un film su Salerno e sto collaborando con lo scrittore Ferruccio Tuozzo per mettere in scena il suo libro “Senza far Rumore”. Il progetto Andrea Doria però va avanti, dopo il docu-film con Pierette stiamo scrivendo un testo teatrale dal titolo provvisorio “Il Capitano e la bambina”, inoltre il MIBACT ha riconosciuto la nostra sceneggiatura “Andrea Doria: La verità Nascosta”, un film di interesse nazionale e culturale, lo Stato ci supporterà nella fase di pre-produzione in un film che avrà un cast internazionale e su cui siamo già al lavoro. Il film si basa sulle ricerche e gli studi della signora Simpson e sugli altri sopravvissuti, come Mike Stoller, che si occuperà delle musiche del film insieme al maestro Gerardo Buonocore. Il film prodotto dalla Saf di Stefano Misiani e sarà infine la base per una mini serie televisiva dove si esalteranno più le storie personali dei tanti sopravvissuti che l’indagine. Per fare tutto questo però dovremo essere aiutati da una co-produzione Americana o Canadese. Spero ne troveremo una nei prossimi mesi”.
Vorresti dire qualcosa alla comunità italiana che vive e lavora a NY o a chi spera un giorno di raggiungere i tuoi livelli professionali, sia in Italia che all’estero?
“Più li conosco e più mi stupiscono, tanto che vorrei conoscerli tutti.
Le comunità italiane sono un esempio di radici e tradizioni, sono davvero felice quando ritorno in America e riscopro i dialetti, le feste, i pranzi domenicali, le tradizioni che erano dei miei nonni. Il legame che gli italo americani hanno con l’Italia è fortissimo, gli italiani invece non si rendono conto dei sacrifici di persone che si sono presi la loro vita sulle spalle per un futuro migliore. Dovremmo prendere molte storie di italo americani come esempi di vita, sacrificio, giustizia, legalità, libertà, rispetto. Cito a caso alcuni nomi, prendendo a prestito un passo tratto dal mio libro “Pietre sull’Oceano”. Un passo in cui il protagonista Giovanni Esposito, amico fraterno del detective Petrosino, nomina alcuni dei grandi italo americani:
“Il saggio Fiorello La Guardia e tutti sindaci italo americani che lo hanno succeduto, il divo Rodolfo Valentino, il guerriero Primo Carnera, il genio Guglielmo Marconi o Giovanni Martini, il patriota originario di Sala Consilina trombettiere e superstite di Little Bighorn, l’apostolo Giuseppe Cataldo, prete alla conquista del West e ancora le grandi voci e gli enormi temperamenti di Enrico Caruso e Pasquale Amato, le immagini immortali di Fank la Cava o del piccolo Francesco Rosario “Frank” Capra che arrivò in America a soli cinque anni lasciando Bisacquino, la stessa città siciliana nota all’epoca per essere residenza dell’assassino Don Vito Cascio Ferro; e ancora la maestra di ballo Malvina Cavallazzi che fece del balletto un’opera d’arte al Metropolitan Opera House di New York, il poeta Lorenzo Da Ponte morto a Manhattan, la missionaria Francesca Saverio Cabrini, prima italo americana ad essere proclamata santa nel 1946, il politico antifascista ed eccellente imprenditore Generoso Pope che ci voleva americani, elettori, uomini speciali, il caro chef Cesare Cardini che dal Lago Maggiore inventò in America la Caesar Salad che tanti di noi ordinano oggi in ristoranti e fast food; quindi i gelati e le cialde di Italo Marchioni, la soave fisarmonica di Pietro Frosini, Joseph Mattone figlio di Emigranti che con la sua compagnia ha edificato metri quadri di solide abitazioni e non ha mai perso la voglia di sentirsi italiano, Giovanni Turini che scolpì la nostra Italia da Mazzini a Garibaldi tra Central Park e Washington Square, i miei cari amici italiani di Pittsburgh Joe e Lucio D’Andrea che hanno brillato in campo diplomatico e militari, e poi tanti altri noti o meno in compagnia dei milioni che ce ne saranno ancora tra i figli di tutti e, infine, come dimenticare il più grande di tutti, il mio dolce amico fraterno Joe Petrosino, attore della storia recente e inimitabile paladino della giustizia.”
La strada è ancora lunga per me, sono solo all’inizio ma il consiglio che posso dare è essere umili, aperti al dialogo, saper ascoltare, non improvvisarsi e conoscere l’Uomo e comprendere che la Cultura, non è solo una parola vuota di significati”.
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