Lampedusa, terra di confine, di frontiera. Un “fronte” più che una frontiera, suggerisce Gianfranco Rosi con il suo ultimo, bellissimo documentario: il regista Leone d’oro per Sacro Gra ci forza a prendere coscienza che è in corso un fenomeno le cui proporzioni immani ancora ci sfuggono, che può essere paragonato, per portata storica e per le tragiche proporzioni alle Grandi Guerre del Novecento e all’Olocausto, come dice lo stesso regista in conferenza stampa. Del resto il titolo, Fuocoammare, richiama una canzone popolare degli anni Quaranta che esorcizza proprio il secondo conflitto mondiale e i combattimenti per mare.

Il film di Rosi, presentato sabato mattina in anteprima mondiale e in concorso al Festival del cinema di Berlino, ci mostra due realtà parallele: da un lato la vita quotidiana degli abitanti di Lampedusa, colta attraverso le giornate del piccolo Samuele, dodici anni, e della sua famiglia, e dall’altro, nel mare, la lotta disperata per salvare centinaia di vite umane, corpi che arrivano come merce senza valore ammassati in spaventosi container.
La vita di Samuele è semplice, caratterizzata da una fantasia fervida, ma sembra calata nel contesto di una malinconica assuefazione al colossale problema che si è abbattuto sulla loro piccola isola, come se queste persone avessero mestamente imparato a convivere con la morte e con la disperazione e per questo si siano proiettate in una condizione di quasi estraneità a se stessi e alla storia. La battaglia in mare, invece, ha tutti gli elementi del war movie: elicotteri, navi da guerra, radar; cambia solo l’obiettivo: non si tratta, qui, di strappare la vita ad un nemico ma di strappare delle vite dalle profondità del mare.
Rosi alterna le due situazioni, con la consueta abilità a “sparire” dal testo e a spalancarci, senza ringhiera, una finestra aperta sulla realtà che documenta, con pochi filtri e senza sconti, e soprattutto conferma una capacità unica di cogliere il simbolico nel reale. Il caso più evidente è quello dell’occhio pigro di Samuele: al bambino viene riscontrata una forma di ambliopia, un’alterazione che si chiama, appunto, “occhio pigro”, e che consiste in uno sviluppo solo parziale delle capacità visive di uno dei due occhi. Per curare questa disfunzione, viene bendato l’occhio “sano”, per costringere l’altro a lavorare. Simbolicamente collocata al centro del film, questa vicenda serve a Rosi quasi come una formulazione programmatica: così come Samuele è costretto ad usare un occhio che appare refrattario a vedere, così noi spettatori, destinatari del suo documentario, subiamo un’operazione di riabilitazione del nostro sguardo “pigro”; Rosi intende, in altre parole, rieducarci all’indignazione e alla commozione che siamo incapaci di provare con la sufficiente intensità davanti a certe situazioni. Verso la fine del film, c’è infatti una delle scene più sconvolgenti non solo di Fuocoammare, ma probabilmente di questa intera edizione della Berlinale: il nostro sguardo viene proiettato nel vivo di un salvataggio che tragicamente non va a buon fine. Ecco che tutto ciò che siamo ormai abituati a sentir pronunciare o a leggere come “parole vuote” (scafisti, gommoni, corpi, ammassati, morti, disidratati, soffocati, annegati, fuga, guerra, torture), anestetizzati da uno sfiancante e sterile dibattito politico e da tonnellate di demagogia, si fa improvvisamente immagine silenziosa, statica, nuda. Un senso, profondo e drammatico, torna di colpo a “scorrere” dentro ad un discorso vuoto e ad uno sguardo, appunto, “pigro”.
Nei diversi personaggi che il film esamina e sfoglia, ce n’è uno che diventa una sorta di collante tra i due mondi: si tratta del dottor Bartolo, il “medico dei salvataggi”, un uomo normale che però salva decine di vite e deve constatare centinaia e centinaia di morti e che con la sua semplicità ribadisce leggi morali incontrovertibili: che i recinti sono per gli animali, che nessuno che si possa definire “uomo” può rifiutarsi di soccorrere le persone che muoiono in mare, che un popolo di pescatori come i lampedusani non può che dare il benvenuto a tutto ciò che viene dalle onde. La grandezza del film di Rosi è di riuscire a ri-attribuire un peso significativo anche a queste formulazioni morali apparentemente scontate: ogni singola parola pronunciata da Bartolo riacquista, nel contesto di Fuocoammare, un’autorevolezza di cui scopriamo improvvisamente di aver sentito a lungo la mancanza.
Questa operazione di “ristrutturazione concettuale”, riuscita e scomoda, avviene a Berlino, nel cuore politico di un’Europa che sembra incapace di affrontare questo dramma dalle proporzioni incalcolabili e nel centro di un paese in cui infuriano le polemiche per le recenti scelte di Angela Merkel in merito all’ingresso dei migranti. Rosi sembra ribadire proprio ciò che ai tedeschi non fa piacere ricordare: che siamo tutti sulla stessa barca.
Guarda il trailer di Fuocoammare>>
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