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February 6, 2017
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La crisi dell’italiano nelle università americane: che fare?

Sull'avvenire dei nostri corsi d'italiano in America: o si investe o si muore

Alessandro MartinabyAlessandro Martina
map lingua italiana in America
Time: 7 mins read

Questa mappa, che mostra il calo di iscrizioni d’Italiano nelle università americane, è stata realizzata dalla Prof.ssa Enza Antenos e viene qui riprodotta per sua gentile concessione. La trovate anche nel suo blog

Vorrei portare alla luce alcuni dati e le poche riflessioni che ne derivano, sull’avvenire dell’insegnamento della lingua italian nelle Università Americane. Il calo nelle iscrizioni negli ultimi anni è un dato inoppugnabile, e a poco giova ricordare la crisi delle cosiddette humanities al grido di “mal comune mezzo gaudio“.

E’ un calo che ho riscontrato alla West Virginia University dove ho studiato Linguistica e lavorato come insegnante dal 2014 e dal 2016, ed all’Università del Wisconsin in Madison dove sono al mio secondo semestre. In West Virginia, al mio primo anno, avevo 2 classi di 20 studenti ma già i dati di quella Università riportavano un calo. Infatti in 3 anni si è passati dall’impiegare 8 teaching assistants a confermarne solo 5. Avevamo poco più della metà delle classi da insegnare. Senza contare che il numero degli studenti per classe si era quasi dimezzato. Al mio secondo semestre potei insegnare un solo corso. Le classi estive che proponevamo venivano cancellate per mancanza di iscrizioni, quasi con regolarità. Qui in Wisconsin non ho dati precisi, ma da quello che posso vedere ci sono stati dei cali anche qui e diverse classi sono state cancellate. Molto più generalmente, facendo una breve ricerca si constata che questo sembra essere il trend in tutti programmi di Italiano negli Stati Uniti.

Prima di lavorare qui a Madison ho fatto domanda di lavoro come insegnante di Italiano. Ne ho fatte più di 100. Non ero sicuro di voler fare il PhD, data la mia non più giovane età, e cercavo lavoro. Il risultato? Più del 50% delle scuole contattate mi ha risposto cordialmente, mi hanno fatto i complimenti per il CV ma mi hanno detto che non potevano assumermi perché l`italiano era in forte calo. La frase che ricorreva più spesso era “le classi si sono dimezzate”. Su 100 domande solo due scuole mi hanno offerto un corso di 2 o 4 ore a settimana. Potete immaginare quale sia stata la mia risposta, dato il costo della vita negli Stati Uniti.

La situazione è molto grave e ci sarà poco da fare se non riusciamo a intervenire adesso, se non riusciamo a cogliere l’occasione di una crisi per assecondare un cambiamento. Un cambiamento necessario che deve necessariamente cominciare dal ruolo che vogliamo dare alla lingua e alla cultura italiana negli Stati Uniti e nel mondo. Sembra un inizio eccessivamente retorico ma non lo è affatto. Bisogna promuovere la cultura, senz’altro, ma bisogna ancora una volta scegliere cosa promuovere. L`italiano, la sua letteratura, ha un significato solo se può stagliarsi e giocare un ruolo all’interno del panorama internazionale odierno. Bisogna scuotersi. Bisogna iniziare un dibattito.

Viviamo in tempi di guerra e di terrorismo, di identità gridate e di diritti revocati, non è vero? E allora bisognerà pur parlare di Sacco e Vanzetti, rielaborare la storia degli italiani in America durante la Seconda guerra mondiale, parlare di fascismo e di resistenza, di Gramsci piuttosto che del senso della storia in Vico. Abbiamo l`opportunità di affondare le mani, proprio come fosse una vendemmia, in una esperienza storica -la nostra- dolceamara, capace di essere seme e frutto al tempo stesso, se gliene diamo il modo. Abbiamo la responsabilità di guardare all’impero romano da vicinissimo, vederne le miserie e non solo i fasti, possiamo celebrare il Rinascimento e la sua presunta fragilità politica, i vizi e le virtù del Risorgimento e gli orrori del fascismo. Serve un dibattito politico sulla cultura quindi. E non solo a chi insegna letteratura va il mio pensiero, tutt’altro! Anzi immagino che i professori di letteratura sappiano già piuttosto bene quanto la considerazione storica del presente possa essere utile alla vita dell’italiano in questo paese. Sono piuttosto gli insegnanti, come me, di corsi elementari e intermedi, a dover riflettere sull’eventualità di introdurre letture, video, documenti storici e letterari nelle loro classi. Una volta l’approccio comunicativo consigliava di rimanere nell’alveo delle abilità orali, seguendo, nella costruzione del discorso, un percorso piuttosto strutturalista, se vogliamo. Oggigiorno, invece, fioriscono gli approcci basati sulla lettura e la comprensione, e questo spalanca le porte alla possibilità di far entrare gli studenti in contatto con la nostra cultura ( e controcultura). Inutile rimarcare come i giochini sulle abitudini degli italiani, le lezioni di civilità e gli stereotipi più o meno corrispondenti al vero, siano da scartare. C’è fame di risposte nel mondo. Dobbiamo partire dalle domande. La letteratura sola, con la sua arte del non dire ma di far pensare, ci può aiutare in questo.

Una riflessione a parte meriterebbe la lingua, il tipo di italiano da insegnare nel mondo. La grammatica generativa ci ha insegnato che non esistono gli errori o gli sbagli. La lingua non commette errori. Non esistono errori di grammatica! Esistono solo tentativi di arrivare ad una regolarità dando la precedenza a questa o a quella legge fonetica o sintattica. L`interlingua, che gli studenti necessariamente attraversano, ha da essere parametro per capire i dialettismi e i regionalismi: che sono stupendi linguaggi incompiuti, di passaggio, metafora del linguaggio stesso. Questo non vuole dire che non bisogna insegnare la grammatica. Significa capire che il cervello cerca le regolarità e che quello che consideriamo errore è soltanto un discorso sospeso, una strada non presa. La grammatica non si acquisisce attraverso la memoria, come una tabellina, ma attraverso un ragionamento in parte conscio in parte inconscio ed a nulla serve sapere recitare regole e declinazioni, se non a rafforzare il nostro piccolo potere autoritario sugli studenti.

Questo per quanto riguarda la lingua e la cultura. Ma c’è molto di più. Il calo nelle iscrizioni è un calo piuttosto trascurato nei suoi aspetti scientifici e dunque statistici. Non vi è un’analisi statistica che faccia da riferimento, che ci guidi a capire cosa succede. Non si ha un quadro delineato, non si sa quale tipologia di studenti ci sia fedele e quale ci abbia voltato le spalle. La situazione non è monitorata e purtroppo molto spesso l’opinione che ci facciamo e che ci siano alti e bassi e che non dipendano da noi. E questo fatalismo non ci aiuta. In un momento in cui scarseggiano i fondi c’è bisogno di investire (come in tutte le crisi che si rispettino.) Bisogna raccogliere dati ed analizzarli. Ogni piccola o grande università dovrebbe provare a fare questo. Inoltre c’è bisogno di avvalersi, anche solo temporaneamente, di un consulente di mercato, qualcuno che possa andare al di là delle analisi e fare delle proposte. La società americana vive di leggi economiche che offrono possibilità di sviluppo persino in tempi di crisi. Non sono pratico di questi tipi di analisi ma è piuttosto chiaro dal mio punto di vista che non possiamo non cercare di capire la domanda e l’offerta, segregando la letteratura e le arti in un ambito che sta fuori dal mercato. Come si fa a fare davvero questo discorso? Chi ci pagherà gli stipendi quando non avremo più iscrizioni?

Attenzione a sottovalutare il problema. Quello che io constato è un calo drammatico di iscrizioni che se non constrastato farà scomparire l’italiano da università, scuole e licei (la cui coordinazione -per inciso- mi pare non sempre all’altezza del compito). E’ proprio questo il momento di investire, se crediamo che valga ancora la pena di insegnare la nostra lingua e cultura in America e nel mondo. Se crediamo di potere incentivare la pace e la cooperazione globale, se crediamo ancora a noi stessi. O si investe o si muore. Prima scompariranno i dottorandi, i corsi di dottorato, e poi si passerà ad avere solo corsi per undegraduate, ma alla fine scompariranno anche quelli. Rimane chi riesce a fare domande forti, culturali, linguistiche e vitali. Ed è giusto così! Dobbiamo lasciare il segno nella cultura americana altrimenti è davvero meglio scomparire. Non possiamo pensare solo di preservare il nostro lavoro. In questa direzione andrebbero quindi fatti alcuni sforzi per coordinare la nostra azione culturale con quella dei Dipartimenti di Inglese, non possiamo prescindere dal confrontarci con la cultura e la lingua di questo paese, con i suoi metodi di ricerca e con le domande che si pone.

Passiamo all’ultimo punto che vorrei trattare qui su La Voce di New York,  e cioè quello delle attività extracurriculari, che sono il fulcro, il marchio di fabbrica di un programma e di un dipartimento. La parola chiave è dispersione. Si seguono gli ordinamenti universitari e senza convinzione si portano avanti 5 o 6 attività culturali differenti senza che gli studenti capiscano e sentano la direzione della proposta culturale italiana. Si scelgono dei film per il cinema, degli argomenti per l’ora di conversazione, delle mete per le visite guidate, ma il tutto senza un vero intento e senza coordinazione. Manca la figura di un promotore culturale che in sintonia con professori e insegnanti persegua un obiettivo chiaro e delineato. Manca la partecipazione degli studenti, non perché, come spesso siamo abituati a dirci, loro siano svogliati e inoperosi, ma perché è tutto un simpatico collage senza forza contenutistica e formale. Non c’è un luogo fisico per gli incontri, non ci sono confraternite che ci comprendano in qualche modo (eppure collaborare con le confraternite dovrebbe essere un impulso basilare di socialità) e non c’è un luogo virtuale, un website che sia il segno di una unificazione di intenti. Se non possiamo avere un luogo fisico che almeno lo si abbia virtuale, morale. Stringere i contatti con le comunità italo-americane sarebbe un altro punto fondamentale. Organizzare viaggi, unire le forze, raccogliere fondi: gli italo-americani potrebbero e in molti casi vorrebbero essere il cuore dei programmi di italiano in America. Ma non lo sono quasi mai.

E’ chiaro sempre più che c’è bisogno di una casa unica, virtuale e fisica, c’è bisogno di qualcuno che si occupi di tutto questo in ogni università. E quale sarebbe quindi il punto? Aggiungere un’altra riunione alle varie riunioni? Un’altra attività alle altre attività esistenti? Un nuovo evento? No, la realtà è che bisogna fare il contrario. Bisogna snellire al massimo e tornare a fare l’essenziale. Gli studenti hanno bisogno di un solo evento, di una sola kermesse, di un solo Club e che sia tutto coordinato, che sia tutto, in qualche modo la “stessa cosa”. E che abbia un senso. In America non si perde troppo tempo, bisogna vivere ogni cosa nella sua essenzialità, altrimenti decade in un batter di ciglio.

La cultura italiana è in crisi. Bisogna prenderne atto. Cina, Corea, Giappone, Russia e Paesi del Medio Oriente offrono stimoli attuali più grandi. La loro diversità attrae. La loro attualità (e non solo la cultura) li rende appetibili. Ho visto studenti italo-americani di seconda generazione scegliere il giapponese e addirittura lo spagnolo piuttosto che l’italiano come lingua seconda. Ancora una volta, con sentimento, mi viene da dire “o si fa l`italiano o si muore”.


alessandro martinaAlessandro Martina, nato in Puglia 34 anni fa, si è laureato in Filosofia all’Università di Bologna e in Linguistica all’Università della West Virginia. Attualmente è dottorando in Italian Studies alla Università del Wisconsin-Madison. 

 

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Alessandro Martina

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Alessandro Martina, nato in Puglia 37 anni fa, si è laureato in Filosofia all’Università di Bologna e in Linguistica all’Università della West Virginia. Attualmente è dottorando in Italian Studies alla Università del Wisconsin-Madison.

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