Ho letto un interessante articolo di Danila Giancipoli sull’uso dell’arte e della cultura nel giorno dell’Inaugurazione di Biden. Mi trovo d’accordo sui motivi ideali che sorreggono la sua analisi -fondamentalmente proveniamo dallo stesso campo di forze sociali- al tempo stesso la mia visione politica tende a disunire il potere e chi lo amministra da coloro che ne fanno una critica radicale, metafisica e contestuale.
Bob Dylan univa il mondo cantando di oppressione, rimanendo sempre distaccato rispetto alle fonti ultime del potere: la burocrazia e la militarizzazione. Il suo essere folk era il contrario dell’essere un socialista statalista, non perché non credesse al welfare o all’innalzamento del minimum wage, ma perché vedeva e riconosceva la ferita profonda che separa chi governa da chi è governato. Negli anni sessanta o sessanta non vi poteva essere identità fra questi due campi di forze per il semplice motivo che il popolo custodiva ancora una rivoluzione pensante, un impeto anarchico, un conato di rigetto verso le ingiustizie dell’organizzazione politica in se; guardava con diffidenza all’apparato burocratico e alle sue macchine repressive e codificanti.
Adesso Biden balla con Jennifer Lopez al ritmo di comuni concetti democratici e liberisti. Dylan e Joan Baez cantavano di una frattura profonda, che persiste tutt’ora, fra retorica e politica, fra spettacolo e realtà; si occupavano di problemi mondiali, di un mondo affamato dal capitale e delle ideologie che lo giustificavano. In The times they are a-changing, questa differenza fra politici e uomini della strada, lavoratori e disadattati, è piuttosto marcata. L’orgoglio stava tutto nel rifiuto ad aderire a questa retorica della comune identità; cosa invece cara agli artisti contemporanei. In un’altra canzone Dylan ci raccontava di un Dio che stazionava stabilmente dalla parte degli americani; in tutte le possibili guerre, passate e future, Dio era dalla parte di chi ha potere. Che si trattasse di metafisica o di ideologie, rimaneva il senso di essere costitutivamente diversi, di non potere omologarsi a chi deteneva il potere. Il dolore per quella inevitabile cesura costituiva una speranza semplicemente umana, un investimento sociale in un popolo che non fosse identico a chi lo rappresentava. Si trattava di sentirsi idealmente distaccati, anarchici; cosi fiduciosi nella naturale bontà dell’essere umano da rigettare istintivamente la macchina hobbesiana del Leviatano. Ecco lo scintillare degli occhi Joan Baez, o la disperazione in quelli di Janis Joplin.
Quando il popolo e i suoi rappresentanti condividono la stessa statura metafisica e si dicono partecipi della stessa identità è sempre un concetto di destra a investire il campo sociale. L’unico sentimento idealmente di sinistra è quello che guarda al governo come un male necessario, con estrema vergogna, con la speranza che un giorno una democrazia naturale, senza codificazioni e burocrati, si possa instaurare pianissimamente, gioiosamente. Mi figuro in questo modo gli slanci ideali di quegli anni, i piccoli ed i grandi gesti, l’idea che la rivoluzione fosse un atto d’amore naturale, di smascheramento del potere e dei suoi codici.

La sinistra pare aver rinunciato a questo. Chiede più codici, più protezioni, più investimento in forze repressive che garantiscano la giustizia per tutti. Questo si riflette anche in politica estera e nella critica -inesistente- al capitalismo. L’impero dei droni di Obama è un male necessario, mentre il capitalismo è diventato addirittura un buon sistema: basta arginarlo con tassazioni e aumenti salariali. La sottomissione, la schiavitù dell’uomo ad opera di altri uomini non fa parte del nostro corredo metafisico, la subordinazione è iscritta nei nostri geni poiché ha vinto l’idea che la libertà non possa essere anarchia, semplicità e indipendenza, ma rigida collaborazione burocratizzata e controllo sociale. Bisogna aiutare gli altri, interessarsi agli altri, sensibilizzarsi per statuto deontologico: pena l’essere considerati moralmente abietti, politicamente inesistenti.

Il divertente meme di Bernie Sanders così amato dai liberal di sinistra mostra chiaramente la loro falsa coscienza. Devono mettere l’etichetta di “nonno” o di “normale” a qualcosa che non è assolutamente niente, solo una persona infreddolita. Il loro interesse a riportare nell’alveo della politica delle identità Sanders è il segno che non hanno mai preso sul serio l’oppressione del capitale, la codificazione dello scibile, la burocratizzazione della vita sociale. Hanno inghiottito la polpetta avvelenata, ormai fra loro e le masse muscolose della destra vi sono distanze, ma meno di quel che si pensa. Basti pensare all’interesse quasi nullo che entrambi gli schieramenti ripongono nella questione russa o cinese. Nessuno dei due sfidanti alla Casa Bianca ha fatto campagna elettorale su questo e a nessuno dei due interessa politicizzare gli interessi nazionali all’estero. Si continua a fare affari con una Cina che aumenta la repressione del popolo Uyghur, attraverso campi di ‘rieducazione’ per sterminarne lentamente l’etnia.

No, non mi fido dell’arte all’Inaugurazione di Biden. Ancora meno a livello estetico. Il testo della poetessa laureata riduce drasticamente l’eccezionalità del discorso poetico a sermone politico, semplicizza e quasi banalizza nell’intento di attrarre e dirigere le masse; desautora il dato poetico della sua portata anarchica e liberatrice, caotica e imprevedibile. Lo priva della sua natura ambigua e interrogativa, che pone domande invece di offrire facili risposte e pigre consolazioni. “Tutta la storia dell’arte è storia dell’arte borghese” diceva Carmelo Bene, aggiungendo “di Stato”. Intendeva dire che la vera arte non si mischia al potere, rimane fuori dalle sue maglie. A meno che non sia ideologicamente venduta e borghese essa stessa. In quel caso, come nel giorno dell’Inaugurazione, l’arte si fa apparato di Stato; edulcorando i sistemi repressivi ci conduce verso le catene ‘buone’ tenendoci gentilmente per mano.
Negli anni `70 invece l’arte stava a ridosso del potere, svolgendo una funzione di critica sociale e di opposizione ideologica. Mi piace citare Fabrizio De Andrè:
“Certo bisogna farne di strada/ da una ginnastica d’obbedienza / fino ad un gesto molto più umano / che ti dia il senso della violenza / però bisogna farne altrettanta / per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire / che non ci sono poteri buoni”
Se Biden tiene accesa la fiamma dell’arte nel buio di questi tempi, ben venga
Gentilissimo Dott. Martina,
La sua risposta mi sembra dettata da una necessità di vedere nell’artista una sorta di politico. Il punto è che Bob Dylan non era un politico, fortunatamente, e non lo è nemmeno Amanda Gorman (per ora).
Citare i personaggi che hanno forgiato una gran fetta di pensatori a cavallo tra la fine degli anni ‘50 e gli anni ‘70, è una scelta che ho fatto con la delicatezza e il rispetto necessario, considerata la difficoltà stessa dell’intellettuale di essere riconosciuto come tale all’epoca.
Ora noi, viziati da una storia che viene raccontata e tramandata, riconosciamo più facilmente in Ginsberg o in altri personaggi coloro che sono riusciti a spezzare la routine del pensiero. Ma è un ragionamento a posteriori, figlio di un ardore che ha richiesto molto più del banale recitare una poesia. Ciò che ora studiamo all’università, prima era “controcultura”.

Amanda Gorman non può fornire risposte o rappresentare la coscienza dell’intero popolo americano, è una voce che (come ho volutamente sottolineato) nasce dalla sua esperienza personale. La sua dote, probabilmente, risiede in quella semplicità che tanto hai trovato stonata. Questo perché il ruolo dell’artista non è fornire risposte ma fare domande.
Comprendo pienamente la necessità di considerare il caos del popolo, l’anarchia, il fervore di una società che io stessa ho definito frammentata.
E’ pure vero che se non vogliamo riconoscere sin da ora la differenza tra un governo democratico ed un precedente governo devoto alla censura e alle dimostrazioni di potere, ci ritroveremo probabilmente a fare l’errore delle frange estremiste: pretendere senza partecipare, criticare senza aprire la mente, e devo dire anche il cuore.
L’artista può escludersi dalla politica come farne parte, esattamente come qualsiasi cittadino che tenta di farlo sentendosi protagonista in un mondo di commentatori.
Una poesia che parla di unione, speranza e libertà, non può essere semplicistica in un mondo perennemente in guerra, in emergenza sanitaria, dominato dai nazionalismi, dalla censura e dalle disuguaglianze sociali.
Lasciare spazio all’arte continua a sembrarmi un atto di coraggio e una debole fiamma del buio. Se poi a tenere questa fiamma viva è la mano del nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden, fidarsi non mi sembra tanto una cattiva idea.
Danila Giancipoli
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