“Siediti e non portare sfiga”. L’accoglienza da stadio ha il suo perché. C’è ancora aria di big match tutto italiano, Juve-Inter, quando manca un’ora e mezza al kick off. Poi il soccer diventa tabù, “beviti una birra e speriamo che i Patriots perdano. Che quelli sono troppo forti e altrettanto antipatici. Atlanta invece potrebbe entrare nella storia”.
Milano, domenica notte, a due passi dal centralissimo corso Como. Pub dal sapore inglese che si veste di stelle e strisce per l’evento dei Seamen. Che di storia ne sanno. Nati nel 1981, assopiti nel ’90 e resuscitati nel 2009, si ritrovano ogni anno per assistere insieme al Super Bowl. “Una tradizione degli anni ’80 che ci piace mantenere” spiega Giovanni Griziotti, uno dei soci. Il club man che ci fa da chioccia.
“Ma gli americani vengono, vero? Altrimenti vado a prenderli di persona e vedi…” dice tra il serio e il faceto una ragazza. Vaglielo a dire tu, al quarterback, che alla fine arriva eccome: quasi due metri di femori, pettorali che bucano la t-shirt e quegli occhiali da collegiale che ti fregano.
Fox sport Italia invita in studio i pochi che si dicono esperti. La loro voce rimbomba dai maxischermi. Giuseppe Cruciani (giornalista sui generis) vede bene Matt Bryan. Billy Costacurta (ex calciatore dell’Ac Milan) tifa per Tom Brady. Gli spot invece, spettacolo nello spettacolo, vengono tagliati nella versione per l’oltreoceano europeo. Lady Gaga no, quella c’è.
Le regole della Iaf prevedono 2 americani più un oriundo per ogni squadra. Stop. E loro sono gli unici a cui i team, dilettantistici, concedono “benefit”: appartamento, auto e poket money settimanale. La sala si riempie e arrivano anche Paul Morant, Luke Zahradka (oriundo della nazionale Blue team) e Reece Horn. Rimangono in piedi durante l’inno nazionale. Seri, anche dopo il lancio incerto della moneta di un George Bush padre messo maluccio. Il primo touch down è dei Falcons-Atlanta e va benissimo così.
Tre ragazzi, non del gruppo dei “Marinai del Naviglio”, chiedono birra e sprite. Vengono fulminati da un cameriere e non si saprà mai se per la panaché démodé o per i cappellini Nba. “I ragazzi americani hanno una grandissima voglia di fare bene qui – spiega il general manager Tato Zamichieli – arrivano dai college, hanno spesso già una grande esperienza anche europea e quindi sanno il livello che li aspetta. Loro sono una spanna sopra, anche due. Ma si adeguano, a volte a fatica ma ce la fanno. Prendete Paul, ad esempio, sì lui che adesso mi sta toccando la pelata (ride, ndr): fisicamente è incredibile. E tatticamente un jolly. Insieme a Luke fanno una coppia Qb-ricevitore pazzesca. E noi, con loro, vogliamo tornare a vincere l’Italian Bowl. Siamo anche vice campioni europei, e dare l’esempio agli oltre 90 ragazzini del nostro Settore giovanile è importante…”.
Dopo i tornei universitari, c’è la Nfl. L’alternativa è un campionato semi-pro che alletta pochi. Molti giocatori hanno legami con l’Europa o l’Italia stessa. A volte un passaporto arriva grazie ad un trisavolo abruzzese o c’è voglia di un’esperienza diversa. E se non vanno in Germania, che vanta un ottimo livello nel Football, scelgono lo stivale. Come coach Tony Addona, italo-canadese e avversario degli odiati Rhinos Milano del collega Chris Ault. Il match però lui se l’è visto a casa del presidente Mutti, mica al pub.
Atlanta dilaga, “ovvio, è il miglior attacco della Lega”. L’apple pie con panna e gelato era ottima. L’ultimo morso e i New England Patriots rimontano. “Ovvio, la miglior difesa del torneo”. Pareggiano. Silenzio: 28-28 e per la prima volta nella storia del Super Bowl si va all’overtime. Houston, abbiamo un problema. Risolto, scusate: Patriots campioni. Abbiamo portato sfiga.