Dopo “Manifesta”, la biennale di arte contemporanea che attrae milioni di visitatori, che sarà ospitata a Palermo nel 2018, arriva un’altra bedda, beddissima notizia per il capoluogo siciliano: Palermo è Capitale italiana della Cultura 2018. E il Sindaco Orlando, a cui bisogna riconoscere la grande vocazione internazionale, gode. Anzi “s’arricrìa” (prova piacere e si diverte, ndr), come tutta la città.
Per noi palermitani Palermo è sempre stata una Capitale. A scuola si diceva: qual è il capoluogo di regione del Piemonte? Torino! E il capoluogo dell’Emilia? Bologna. E la Capitale della Sicilia? Palermo!!! Ma ora è ufficiale, siamo Capitale dell’Italia intera, e addirittura della Cultura, per l’anno che verrà, il 2018. Il mondo ci abiterà, ci ascolterà e ci ammirerà, se noi sapremo stupirlo.
Una volta tanto non mi va di ricordare che le strade sono sporche a Palermo, che la gente spesso è incivile e che butta la carta per terra, non rispetta le code e passa col rosso. Non voglio farlo, perché voglio godermi il premio che ci hanno assegnato, riflettere sulla motivazione e sperare nel futuro. E soprattutto mi piace questo faro di fiducia e di palco puntato su quei cittadini, pochi o molti che siano, che stanno dalla parte del bello che è anche il bene di questa città: educatori, genitori, operatori sociali, giovani, vecchi, artisti e baristi, barbieri e artigiani, immigrati e turisti, avvocati, medici e preti, tutti schierati per la resistenza, per le regole, per il rispetto, magari con qualche piccola eccezione, dovuta solo a un concetto diverso di elasticità, ma niente di grave.
Siamo stati premiati per la Cultura, soprattutto viene riconosciuto il valore “etico” della cultura come bellezza e accoglienza. E io mi ritrovo. Dentro di me, profondamente, in mezzo a mille contraddizioni, vive questa idea di bellezza come origine e fine naturale, e so che c’entra la mia infanzia e la mia Sicilia, che con la sua scenografia mista d’incanto e oltraggio, bene e male, paradiso e inferno, pone domande sulla verità e lascia il tempo di giocare con immagini e parole, a volte misteriose e potenti, altre volte popolari, intraducibili e altrettanto vere.
E così, per esempio, ho passato anni e anni tutti i giorni della mia adolescenza a riflettere sulla scritta del frontone del Teatro Massimo: “L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire.”
Bello, forte, ma…che significa? Non posso chiedere nemmeno all’autore perché è piuttosto ignoto.
Uscivo da scuola e prendevo l’autobus per tornare a casa, che percorreva tutta la via Libertà. In effetti quella via è stata la mia ginnastica mentale, la passeggiata lenta e lunga verso casa, “libera” di mescolare e scatenare il pensiero. Sempre piena di sole, tornavo a casa a mezze maniche, anche d’inverno, divertito e accaldato come ogni ragazzino. E poi d’improvviso il Teatro, grande, “Massimo”, il più grande d’Italia, iI terzo d’Europa. Ai tempi era chiuso, è stato chiuso per più di 20 anni, simbolo appunto di bellezza e oltraggio della città. Ma anche di resistenza, energia e vita. Il Teatro, non potendo parlare da dentro, urlava in silenzio ogni giorno da fuori: “L’arte rinnova i popoli….”. L’autobus faceva la sua fermata, per me era la penultima, poi sarei arrivato a casa, ma quella fermata mi sembrava eterna, avevo tutto il tempo di leggere e mi sembrava che tutto fosse sospeso, un po’ come il pallone che nel ’70 in Messico Pelé colpì di testa alto, altissimo, verso la rete, mentre tutto attorno era immobile.
Ecco, quella scritta era solo per me e c’era tutto il tempo di gustarla dal finestrino.
A casa ero l’ultimo ad arrivare ed era un bene perché mangiavo anche quello che avanzava, e si mangiava bene a a casa mia, come in ogni casa di allora. Poi tutto si fermava a Palermo, più o meno dalle 14.30 alle 15.30, era notte profonda. Niente telefoni, niente sirene, solo qualche leggero suono domestico, era il momento della pennichella. E il cervello si lasciava cullare nel dormiveglia: “Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire”.
Passano gli anni, cresco, mi ritrovo a Milano, studio, lavoro, mi ambiento. Vado in ufficio, allo stadio, ai concerti, a teatro. A Milano ce ne sono tanti e mi commuovo spesso. Di ritorno a casa, stavolta in tram, penso e parlo con mia moglie, ascolto le sue emozioni, capiamo che il lavoro è importante, ma non può essere tutto, come può accadere a Milano se non reagisci. Bisogna uscire, che magnifica serata, il teatro ci rinnova e ci diverte…
Arte e piacere. Dopo 23 anni, esattamente il tempo che c’è voluto per costruire il Teatro Massimo e successivamente il tempo in cui è stato chiuso, dopo 23 anni anch’io riapro un portone e torno in Sicilia. E riscopro il piacere, quello più viscerale, della mia terra. Il piacere del posto, del mare, dei profumi, della festa e ovviamente del cibo.

Quando un siciliano si gode il piacere del cibo e della festa, quando la domenica d’estate al riparo dal caldo, di fronte al mare, con la sua famiglia mangia la pasta al sugo con le melanzane fritte e la ricotta salata, fatta “come Dio comanda”, gode di un piacere immenso, che deve necessariamente essere condiviso e comunicato, s’arricrìa. E infatti, con orgoglio e piacere te lo dice: “mi sono arricriato!”. Ancora meglio e con tanta più goduria se al passato remoto: “M’arricriavu!”
“Arricriarsi” è molto più che la semplice traduzione dello stare bene. C’è senz’altro il concetto sano di ricreazione come momento di riposo e divertimento, c’è il “ricrearsi” come rigenerarsi, sentirsi rinato. Ma c’è di più: c’è tutta una messa in scena che accompagna questa esplosione verbale, il racconto esatto di ogni dettaglio, se si tratta di cibo è anche ricetta filmata e acquolina contagiosa, poi c’è tutto il sonoro, recitato e lento, un vero e proprio racconto erotico che si conclude col godimento. E soprattutto con la condivisione, il vero piacere è condividere il piacere. Insomma se un siciliano s’arricrìa, può anche morire, coglie l’attimo e non gliene fotte più niente. Non è anche questo lo scopo dell’arte? Cogliere la bellezza e renderla eterna per tutti. Perché poi comunque non si muore, e si deve andare avanti, insieme.
Passeggiare liberamente, col pensiero e con i piedi, è un’abitudine che ho ereditato in Sicilia e che continuo a praticare anche inconsciamente. Spesso, avanti e indietro sulla battigia, mi sono chiesto il significato delle parole della Bibbia “Dio creò l’uomo a sua immagine”. In che senso?
Immortale? Credo di sì , nel senso artistico e creativo. L’uomo è creativo e creatore e lascia il segno a chi verrà dopo di sé. L’uomo quindi, mi sembra di capire, è divino perché è artista, autore di parole, immagini, sculture, musiche, oggetti, cibi. E crea continuamente alla ricerca della verità, della bellezza e del piacere. Noi italiani in questo essere geniali siamo molto “divini”‘ e dovremmo ricordarcelo. Forse abitiamo e arrediamo l’Eden senza saperlo, di certo non paghiamo l’affitto. E da tutto il mondo invece pagano per venire e cogliere quest’attimo divino che sappiamo immortalare.
Nel 2018 accadrà a Palermo, dove arte, cultura e bellezza significano anche accogliere e “arricriarsi” insieme. Godere e condividere insieme la bellezza, tutta. E questo a Palermo è davvero un valore da sempre, abituata com’è a convivere con arabi, turchi, fenici, spagnoli, francesi, svevi, principi e re, briganti e giullari, artisti di strada, coltivatori d’uva e amanti del buon vino.
Arriva un milione di euro e un anno di tempo, il 2017, per preparar l’avvenire. Arrivano altri milioni e abbiamo un anno di tempo, il 2018, per arricrìare e rinnovare i popoli. Venite gente, da ogni parte, mi auguro davvero che non sia vano delle scene il diletto.
Emilio Pursumal ha studiato e vissuto a Milano, dove ha lavorato per 15 anni come professionista della comunicazione d’impresa, prima per RCS MediaGroup, poi come consulente e creativo per clienti e agenzie. Oggi vive nella sua Palermo e si occupa di comunicazione creativa e multimedia. L’ultimo sogno e impegno è La Voce di New York, giornale on line indipendente, di cui è partner e general manager.
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