Dopo il Super Tuesday è arrivato quello che gli americani hanno ribattezzato, con poca fantasia, Super Saturday. A dispetto del nome, i due eventi non sono paragonabili in termini di importanza, dato che nel primo erano in palio ben 12 stati, mentre nel secondo si è votato in tre stati per i democratici e in quattro per i repubblicani.
Tuttavia, se in campo democratico il Super Saturday non ha inficiato la marcia della Clinton, che pur aggiudicandosi solo la Louisiana e lasciando a Sanders Kansas e Nebraska, continua ad avere un vantaggio rassicurante, sul fronte conservatore ha lanciato segnali importanti. Il fatto che Ted Cruz sia riuscito ad arginare Donald Trump in Kansas e Maine lasciandogli solo Kentucky e Louisiana è infatti uno dei primi effetti di una violenta offensiva con cui l’intero establishment repubblicano, politico e mediatico, si è scagliato contro il tycoon tentando di rallentarne il cammino ormai spedito verso la nomination.
Per capire la portata dell’assedio a cui è sottoposto Trump, occorre ripartire dal dibattito di giovedì scorso, una giornata che ha fotografato nitidamente la totale crisi di identità in cui versa la dirigenza del GOP.
In un mix di colpi bassi, attacchi personali e frequenti interruzioni reciproche, in cui non sono mancate nemmeno allusioni sessuali poco “presidenziali”, l’ultimo dibattito repubblicano organizzato a Detroit da Fox News è sembrato più uno scadente reality show che il contesto dal quale dovrà emergere il prossimo candidato alla Casa Bianca. A ben vedere, le due ore di confronto sono ruotate intorno a un unico tema: l’ovvia inadeguatezza di Trump a ricoprire il ruolo di Presidente degli Stati Uniti. Dall’inizio alla fine del confronto, il magnate è stato preso di mira senza sosta dai suoi due abituali avversari, Ted Cruz e Marco Rubio, e bersagliato dalle taglienti domande dei moderatori, tra i quali figurava la giornalista Megyn Kelly, “vecchia conoscenza” dello stravagante newyorkese.
L’intero dibattito si è quindi concentrato sulle mille contraddizioni di Trump, compresi gli scandali che hanno coinvolto direttamente le sue variegate attività di business man. L’esempio più eclatante è stato quello della famigerata Trump University, creata nel 2005 e dal 2011 a oggi oggetto di inchieste e processi che ne hanno messo in luce numerose opacità, oltre che la scarsa serietà come ente di formazione. Non sono poi mancati velenosi riferimenti alle altre imprese del tycoon, accusato di sfruttare manodopera straniera a basso costo fuori dai confini nazionali per produrre i suoi capi di abbigliamento, o di assumere nei suoi hotel immigrati stagionali invece che lavoratori americani.
Nel rispondere alle incessanti provocazioni di Rubio e Cruz, Trump se l’è cavata sfoggiando il bullismo che lo ha reso famoso, ma la sua strategia difensiva ha ceduto quando si è trattato di descrivere nei dettagli il proprio programma elettorale. Di fronte alle pressioni dei moderatori, infatti, il milionario ha messo in luce evidenti debolezze, dovendo ammettere i troppi ripensamenti su alcuni temi caldi. È stata Megyn Kelly a infliggergli le stoccate più dure, mettendolo letteralmente alle corde. Dopo avergli chiesto spiegazioni su un’intervista rilasciata al New York Times e mai pubblicata, nella quale smentiva l’attuabilità del suo folle piano di deportazione degli immigrati illegali, l’agguerrita anchorwoman ha infierito mostrando delle clip in cui Trump dichiarava che la guerra in Afganistan era stata un errore (salvo contraddirsi in altro contesto), cambiava idea riguardo l’accoglimento dei profughi siriani (dicendosi prima favorevole e poi contrario) e infine accusava George W. Bush di aver mentito sulla guerra in Iraq, facendo in seguito un passo indietro sulla malafede dell’ex presidente. Preso alla sprovvista e non potendo negare l’evidenza (cosa che abitualmente gli riesce benissimo) Trump ha dovuto arrampicarsi sugli specchi per difendersi: “non ho mai visto una persona di successo che non sia stata flessibile o che non abbia avuto un certo grado di flessibilità”, ha risposto, per giustificare la sua propensione a rilasciare dichiarazioni a sproposito.
Il bombardamento contro il front runner repubblicano ha dunque eclissato qualsiasi discussione politica seria, distogliendo l’attenzione su temi importanti ed evitando di sondare la dubbia ragionevolezza dei programmi ultraconservatori di Rubio e Cruz. Il disastro ambientale di Flint, tanto per dirne una, ha ricevuto solo un breve accenno, dando la possibilità a Rubio di prendersela con i democratici piuttosto che rispondere sul merito della questione. E pensare che lo scandalo, ovvero l’avvelenamento di migliaia di persone per effetto di acque tossiche, è avvenuto proprio nello stato del Michigan (dove si teneva il dibattito), coinvolgendo direttamente un governatore repubblicano prontamente difeso dal giovane senatore della Florida.
Insomma, se le posizioni di Trump sono nella maggior parte dei casi indifendibili, le idee dei suoi due principali competitor non sono apparse meno strambe. Nel corso del confronto Cruz ha per esempio proposto di abolire l’IRS (l’agenzia governativa per la riscossione delle tasse), mentre Rubio ha ammesso candidamente di voler effettuare consistenti sconti fiscali alle imprese (leggi grandi multinazionali) continuando le politiche di deregulation che hanno portato alla terribile crisi del 2008. Tutto perdonato in presenza dell’impresentabile Trump. In tale contesto John Kasich, unico candidato competente presente sul palco, è stato relegato ai margini, sia per le sue deludenti performance elettorali, sia per la propria riluttanza a partecipare alla sterile rissa in corso.
Visto in prospettiva, il pessimo confronto di giovedì è stato il culmine della reazione dall’establishment repubblicano dopo lo choc seguito alla vittoria di Trump nel Super Tuesday. Ad iniziare l’offensiva era stato giovedì mattina Mitt Romney, ex candidato alla presidenza nel 2012 e personalità influente del GOP. In un infuocato discorso tenuto in Utah, Romney non aveva usato mezzi termini, definendo Trump “un ipocrita e un ciarlatano” e ribadendo che il tycoon “non ha il temperamento né il giudizio per diventare presidente”. Durante il suo lungo affondo, Mitt si è detto convinto che la candidatura del magnate porterebbe il partito repubblicano a una epocale sconfitta, avvertendo gli elettori conservatori sui pericoli derivanti dall’ascesa del tycoon. Alla fine, però, si è rifiutato di appoggiare direttamente uno dei restanti candidati, mettendo in luce le ansie e le paure del suo partito.
Curiosamente, non è la prima volta nella storia che un senatore di nome Romney si oppone pubblicamente al front runner durante primarie del GOP.
Nel 1964 una battaglia analoga era stata condotta dal padre di Mitt, George W. Romney, contro Barry Goldwater. Un altro “terremoto politico” che sconvolse le fila del partito repubblicano, cambiandone per sempre il volto.
Nella migliore tradizione di famiglia, Mitt è stato (come il noto genitore) profeta di future sciagure per il suo schieramento, anche se a essere onesti le differenze saltano subito agli occhi. Durante le primarie del ’64 George W. Romney, senatore e governatore del Michigan, condusse infatti una battaglia totalmente diversa da quella del suo rampollo, difendendo il partito dalla deriva di destra rappresentata da Goldwater e facendosi interprete di idee e principi di un Grand Old Party ormai scomparso.
Fermo sostenitore del Civil Rights Act appena approvato da Johnson, George si rifiutò di assecondare un candidato che strizzava l’occhio alle politiche segregazioniste, dando voce a una corrente moderata radicata soprattutto negli stati del Nord. Alla fine non riuscì a fermare Goldwater, che vinse la nomination, condusse i repubblicani verso la disfatta contro Lyndon Johnson e pose nello stesso tempo le basi per la nascita della corrente ultraconservatrice oggi dominante, di cui il figlio è un fiero esponente.
Insomma, si trattò di uno scontro basato su ideali e principi, mentre al netto della patina retorica sul “bene della nazione” l’attuale guerra portata avanti da Mitt è solo il disperato tentativo di un gruppo dirigente fallito di preservare sé stesso di fronte a un candidato visibilmente schizofrenico. Le alternative appoggiate dall’establishment hanno posizioni estreme tanto quanto quelle di Trump, solo che, a differenza di quest’ultimo, sono “controllabili”.
Dovremo aspettare ancora per vedere se gli assalti della dirigenza conservatrice riusciranno a bloccare in extremis il milionario di New York. Per ora la sua campagna, seppur con qualche crepa, continua a puntare dritta alla nomination.
Intanto, mentre gli occhi degli analisti sono puntati sulla gravissima crisi dei repubblicani, domenica sera si è svolto a Flint il dibattito della CNN tra Bernie Sanders e Hillary Clinton. Nulla di paragonabile alla zuffa che ha visto protagonisti i conservatori, ma il clima tra i due candidati democratici era teso e le scintille non sono certo mancate. La parte iniziale del confronto è stata ovviamente dedicata alla drammatica situazione ambientale in cui versa Flint, e rispondendo alle domande del pubblico sia Sanders che Clinton hanno espresso la volontà di un fermo intervento federale per individuare le responsabilità e ripristinare condizioni di sicurezza del servizio idrico. Oltre all’incapacità di gestione da parte del governatore repubblicano Rick Snyder, infatti, l’avvelenamento delle acque è dovuto a imperdonabili omissioni a livello governativo da parte dell’EPA (l’agenzia federale per la protezione ambientale).
Se nei primi minuti i candidati hanno dimostrato sostanziale unità d’intenti, quando il dibattito è passato all’economia sono emersi i consueti attriti: Sanders ha attaccato frontalmente l’ex segretario di stato accusandola di appoggiare politiche liberiste e rimproverandogli legami con Wall Street, ma Hillary si è difesa bene, rispondendo colpo su colpo e dipingendo il suo avversario come un candidato “monotematico”. Nel tentativo di ribadire la sua fama di “donna d’azione”, Clinton ha inoltre richiamato la presidenza del marito Bill, intestandosi alcuni dei successi dell’amministrazione del consorte, e dimostrandosi più sicura di Bernie sul tema della vendita delle armi.
A Flint è dunque andato in scena il solito copione, ma indubbiamente i momenti di tensione hanno svelato un certo nervosismo del senatore del Vermont. La ragione è fin troppo ovvia: sapendo di essere ancora molto indietro nella corsa ad accaparrarsi delegati, Sanders ha provato a evidenziare le debolezze di Hillary, ma ormai la ex First Lady non si fa più cogliere in fallo.
Nonostante domenica Bernie abbia aggiunto il Maine agli stati vinti il giorno precedente, il vento favorevole a Clinton non accenna a cambiare, allontanandolo inesorabilmente dalla nomination.