Da quando i cittadini dell’Iowa hanno dato il via alla stagione delle primarie, abbiamo assistito a un susseguirsi di eventi imprevedibili: dall’avanzata inarrestabile del ciclone Donald Trump al momentaneo exploit dell’eretico Bernie Sanders, dall’umiliante ritiro di Jeb Bush al travolgente trionfo di Hillary Clinton in South Carolina. Fino a oggi, la campagna elettorale ha permesso ai candidati di concentrare i propri sforzi guardando ai singoli stati che incontravano strada facendo, adeguando il loro messaggio alle varie realtà locali e regionali. Da martedì primo marzo la lotta delle primarie subirà però una svolta decisiva, aprendo ai vincitori di entrambi i partiti la strada per la nomination.
Il “giorno del giudizio”, conosciuto come Super Tuesday, è uno di quelli da segnare in rosso nel calendario politico americano, e vedrà il voto contemporaneo di ben 12 stati, concentrati soprattutto nel Sud. Il gran numero di delegati messi in palio in luoghi come Alabama, Arkansas, Texas, Georgia e Tennesee, tanto per citare i più noti, potrebbe avere conseguenze irrimediabili su entrambi i fronti. In campo democratico può segnare il definitivo declino di Bernie Sanders, la cui ascesa sembra aver subito una durissima battuta d’arresto, mentre tra i conservatori rappresenta l’ultima occasione di far emergere un candidato in grado di insidiare seriamente Donald Trump.
Ma qual è l’origine di uno degli eventi maggiormente attesi della vita politica americana? A ben vedere, il super martedì ha una storia relativamente recente e vide la luce proprio nel Sud alla metà degli anni ’80, stravolgendo gli equilibri elettorali dei singoli stati e costituendo una sorta di “prova generale” per le successive elezioni presidenziali di novembre. Tutto nacque da una tremenda sconfitta. Correva l’anno 1984 e il repubblicano Ronald Reagan, in corsa per il secondo mandato alla Casa Bianca, travolse il democratico Walter F. Mondale conquistando 49 stati su 50 e lasciando al suo avversario solo il Minnesota. La cocente umiliazione fu sentita in modo particolare dai democratici del Sud, che mal digerirono la candidatura di Mondale (considerato troppo liberal) e decisero così di influenzare maggiormente la selezione dei futuri aspiranti alla presidenza raggruppando le loro primarie in un unico giorno. Uno degli effetti principali di questo nuovo meccanismo, presto adottato anche dal GOP, fu di costringere i candidati a parlare a una parte più vasta e variegata di elettorato, evitando che il loro successo fosse condizionato in modo eccessivo dalle performance ottenute in stati piccoli e poco rappresentativi come Iowa e New Hampshire. Le primarie del 1988, dunque, videro il voto in contemporanea di nove Southern States, e il termine Super Tuesday (usato già in precedenza, ma in modo marginale) entrò definitivamente nel gergo di commentatori e analisti politici. E da allora non sono certo mancati colpi di scena.
Come nel 1992, quando un giovane governatore dell’Arkansas di nome Bill Clinton si impose sugli avversari proprio in un fatidico martedì, guadagnandosi la nomination (e la presidenza) sulla scia del grande successo ottenuto tra l’elettorato progressista del Sud. Eppure all’epoca in pochi avrebbero scommesso su Clinton, soprattutto dopo il tremendo flop in Iowa nel quale ottenne solo il 2,81% delle preferenze.
Curiosamente, anche la campagna di Hillary è partita male e riceverà una spinta decisiva proprio dal Sud, anticipata dalla confortante vittoria di sabato in South Carolina. Guardando le statistiche successive al voto, la ex First Lady deve aver tirato un sospiro di sollievo sapendo di avere dalla sua l’intero blocco elettorale degli afroamericani, indispensabile a qualunque candidato democratico per prevalere. Nel Palmetto State Bernie Sanders ha dovuto invece far fronte a una disfatta catastrofica, finendo più di 47 punti percentuali indietro. Secondo gli esperti, dopo la batosta del South Carolina è davvero difficile che il senatore del Vermont superi il “test di eleggibilità” del Super Tuesday.
Se i progressisti hanno ritrovato una Hillary Clinton pronta a fare il pieno di delegati il prossimo martedì, sul fronte repubblicano è sempre Donald Trump ad avere il vento in poppa. Di recente, il tycoon ha persino incassato il supporto dell’ex avversario Chris Christie, ormai fuori dalla competizione ma pur sempre in grado di smuovere voti e simpatie all’interno del partito. Durante il dibattito di giovedì a Houston organizzato dalla CNN, il magnate newyorkese ha barcollato di fronte ai furiosi attacchi subiti da Rubio e da Cruz, ma ciò non sembra averlo danneggiato nei sondaggi. Dal canto loro, i vertici del Grand Old Party si trovano in un vicolo cieco; non vogliono ancora arrendersi a Trump, ma sanno che fino a quando Cruz e Rubio continueranno a dividersi il voto della base conservatrice sarà praticamente impossibile fermarlo. In risposta, il magnate ha un prezioso alleato: la matematica. Per aggiudicarsi la maggioranza di 1237 delegati alla Convention di luglio non ha bisogno di stravincere, ma gli basta conseguire un risultato ampiamente alla sua portata, conquistando solo il 39% dei delegati messi in palio martedì. Insomma salvo improbabili colpi di scena, quest’anno Trump e Clinton puntano a superare agevolmente l’ostacolo del Super Tuesday. E sognano già un altro, ben più prestigioso martedì di novembre: quello dell’Election Day.