Uno degli effetti della mondializzazione e della crescita abnorme delle multinazionali in tutti i settori è che nella maggior parte dei casi si è perso il controllo di chi acquista nei confronti di come vengono prodotti gli oggetti e, soprattutto, chi li produce. Venuta a mancare, in quasi tutti i paesi del mondo, la produzione locale o, come si usa dire oggi, “a km zero”, tutti comprano oggetti realizzati in paesi sperduti e lontani. Questo fenomeno macroeconomico ha fatto perdere quasi completamente l’attenzione sul modo di realizzarli.
In quasi tutti i paesi occidentali, ormai, esistono regole ferree sul rispetto dell’ambiente, sui materiali, sulle condizioni di lavoro e sui lavoratori. Il problema è che la stragrande maggioranza dei beni che fanno parte della vita di tutti sono realizzati in paesi dove queste regole non esistono. In qualche raro caso si riesce a verificare la qualità dei materiali (anche se le ultime direttive comunitarie hanno fatto un grosso favore alle multinazionali riducendo buona parte dei controlli e proprio per i prodotti più delicati, gli alimentari). Nessuno, però, sa in quali condizioni sono stati prodotti questi beni e, soprattutto, quanti anni aveva chi li ha realizzati.
Nel 2001, diverse multinazionali sottoscrissero un documento (il protocollo Harkin-Engel o Protocollo sul cacao), con il quale si impegnavano, da luglio 2005, a certificare che il cioccolato adoperato non sarebbe stato prodotto attraverso manodopera minorile, debitoria, forzata o proveniente da traffico di esseri umani. Una promessa che, secondo il report dell’International Labor Rights Fund, non è stata mantenuta. Nel 2005, due ONG, la International Labor Rights Fund e la Global Exchange, denunciarono Nestlé e le aziende da cui si riforniva di commodity e di uso di manodopera ridotta in schiavitù e di sfruttamento del lavoro minorile. Le ONG parlarono di minori trasferiti dal Mali alla Costa d’Avorio per lavorare gratuitamente nelle piantagioni di cacao, con poco cibo, poco sonno e lesioni personali. Lo scorso anno, sempre la Nestlè, è stata accusata dello sfruttamento di bambini ridotti in schiavitù, nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio.
Anche Hershey’s e Mars hanno ricevuto accuse analoghe: negli USA, Steve Berman, contitolare di uno studio legale specializzato in cause di questo tipo, ha lanciato una class action nei loro confronti. E sempre lui ha accusato Nestlé di sfruttamento del lavoro minorile in Thailandia, dove la multinazionale avrebbe taciuto sull’impiego di pescatori/schiavi, provenienti da Birmania e Cambogia, impiegati per la realizzazione di alimenti per gatti.
Una moderna forma di schiavismo minorile da parte delle grandi multinazionali che è stata confermata anche dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che ha dichiarato che sono più di 284.000 i minori costretti a lavorare nelle coltivazioni di cacao nell’Africa Occidentale e, soprattutto, in Costa d’Avorio. I bambini e i ragazzi che lavorano nelle piantagioni di cacao africane sarebbero più di 200.000. Hanno tra 5 e 15 anni, e spesso sono vittime di una vera e propria “tratta”. E, proprio in questo paese, Nestlé è la terza compratrice di materie prime mondiale.
Secondo i rapporti delle organizzazioni internazionali, sembra che non ci sia settore produttivo o multinazionale che non sia stata coinvolta, almeno una volta, direttamente o indirettamente (acquistando prodotti da aziende che ricorrono a questi sistemi) nello sfruttamento del lavoro minorile. Nel mondo dei cellulari, ad esempio, Amnesty International ha accusato i costruttori di smartphone e computer di ciò che sta avvenendo in Cina. E tra i maggiori fornitori di coltan, materiale da cui tutte le maggiori industrie produttrici di cellulari ricavano i componenti per le batterie dei cellulari che poi vengono venduti nei paesi occidentali, c’è la Repubblica democratica del Congo (una delle nazioni più povere al mondo). Amnesty International, nel suo rapporto This Is what We Die for, redatto in collaborazione con l’ONG Afrewacht, ha denunciato come, in questo paese, i minori vengono tenuti come schiavi in decine di miniere di coltan.
Una forma di schiavitù e di sfruttamento minorile che interessa anche l’Europa. Recentemente H&M e Next sono state costrette ad ammettere la presenza di bambini negli stabilimenti dei loro fornitori. E, secondo un’indagine del Business & Human Rights Resource Center (BHRRC), in alcuni stabilimenti in Turchia, a lavorare sono bambini scappati dalla Siria a causa della guerra in atto. Delle 28 aziende contattate dal BHRRC, solo poche si sono curate di verificare le condizioni di lavoro e l’età dei “lavoratori” inseriti nelle catene di produzione delle fabbriche di abbigliamento turche che forniscono merci a quasi tutti i paesi europei. Eppure, in queste fabbriche, il BHRRC ha scoperto salari miseri, lavoro minorile e persino violenze sessuali subite da alcuni rifugiati. Molti grandi marchi si sono rifiutati di rispondere alle domande, ma quattro aziende hanno ammesso la presenza di rifugiati siriani nella propria catena di fornitura. Secondo Business and Human Rights Resource Centre (BHRRC), pochi brand prendono misure adeguate per garantire che i rifugiati “non stiamo scappando da un conflitto” per cadere “in condizioni di sfruttamento lavorativo”.
La Turchia, come riporta il quotidiano britannico Independent, è uno dei principali poli di produzione di articoli di abbigliamento per le grandi catene internazionali, insieme a quelli di Cina, Cambogia e Bangladesh. Fornitori turchi producono anche per marchi famosi come Burberry, Adidas, Marks & Spencer, Topshop e Asos.
Recentemente è stato lanciato l’allarme: all’elenco dei rifugiati entrati in Europa mancano migliaia di bambini. E il paese dove si trova il maggior numero di rifugiati siriani (più di 2,5 milioni) è proprio la Turchia. Un paese che, solo poche settimane fa, a seguito di colloqui con l’Unione europea, ha promesso di concedere il permesso di lavorare ai profughi.
In Bolivia si è andati oltre: non riuscendo ad arrestare il fenomeno hanno deciso di legalizzarlo. A luglio 2014 il Parlamento boliviano ha approvato una legge in base alla quale l’età minima per lavorare sia sempre 14 anni, ma potranno essere autorizzate “eccezioni” per bambini di 10 anni che potranno avere un lavoro in proprio, mentre quelli di 12 anni potranno essere lavoratori dipendenti. “Abbiamo modificato il Codice in base alla realtà del paese”, è stata la giustificazione di Javier Zavaleta, vicepresidente della Camera dei deputati.
Sebbene molti paesi abbiano sottoscritto norme internazionali per eliminare il lavoro minorile, lo sfruttamento di minori è un fenomeno globale, esteso e redditizio in tutto il mondo. Secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, sono 215 milioni i bambini che lavorano in attività che andrebbero abolite; di questi, 152 milioni hanno meno di quindici anni, e 115 milioni svolgono lavori pericolosi. Dati dell’International Labor Rights Forum confermano che sono 120 milioni i bambini che lavorano a tempo pieno per aiutare le famiglie sull’orlo della miseria. Non solo paesi poveri, ma su tutto il pianeta. Se, da un lato, tutti (multinazionali in testa) continuano a ribadire di essere contrari allo sfruttamento del lavoro minorile e condannano apertamente questa pratica, dall’altro, però, si continua a consentire il commercio di beni e prodotti in fabbriche dove a lavorare in condizioni di schiavitù spesso sono ragazzini di pochi anni.
Ma non basta. Quella del lavoro minorile non è una piaga solo al di fuori dei confini nazionali: secondo i dati resi noti da Save the Children e dall’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, in Italia sono 340.000 i bambini e gli adolescenti costretti a lavorare in condizioni pericolose per la loro salute o per la loro stessa vita. A confermarlo è la ricerca Game Over, condotta da Save the Children: nel Bel Paese, il problema riguarda il sette per cento dei minori di età tra i 7 e i 15 anni. Raffaella Milano, direttore Programmi Italia-Europa Save the Children, ha detto: “Il picco di lavoro minorile si registra tra gli adolescenti”, non a caso in Italia si registra “uno dei tassi di dispersione scolastica più elevati d’Europa e pari al 18,2 per cento”.
“Dobbiamo impedire che il lavoro minorile comprometta il presente e il futuro dei bambini e agire perchè ciò non accada, sia nei paesi in via di sviluppo che nei paesi più benestanti, Italia inclusa”, ha aggiunto Furio Rosati, dell’ILO e direttore del Programma di ricerca ILO-UNICEF-Banca Mondiale Understanding Children’s Work (UCW. “Non affrontare il problema del lavoro minorile e di un precoce ingresso sul mercato del lavoro renderà estremamente difficile affrontare l’emergenza dell’occupazione giovanile”.
Un’emergenza che non cesserà mai. Almeno fino a quando verrà consentito alle grandi aziende di sfruttare bambini e adolescenti per produrre beni e alimenti che vengono venduti al capo opposto del mondo senza effettuare alcun controllo su chi li ha prodotti. Così lontano, che nessuno quando li compra si domanda se chi lavora in quella azienda ha l’età per farlo o se deve ancora imparare a leggere e scrivere.