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January 28, 2016
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January 28, 2016
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Il GOP, Trump, Cruz e il fantasma di Goldwater

Le elezioni presidenziali del '64 segnarono per i repubblicani una sconfitta epocale

Massimo ManzobyMassimo Manzo
trump-gop
Time: 5 mins read

Uno spettro si aggira tra le fila dei repubblicani: si tratta dell’ombra del senatore Barry Goldwater, scomparso nel 1998 e protagonista di una delle sconfitte più brucianti della storia del GOP.

Era il lontano 1964 e le elezioni presidenziali di quell’anno segnarono il trionfo del Presidente democratico uscente Lyndon Johnson, che riuscì a portare dalla sua parte ben 44 stati su 50 umiliando il suo avversario repubblicano. Per il Gran Old Party fu un disastro e significò la perdita di moltissimi seggi sia al Congresso sia al Senato. Oggi, a distanza di cinquant’anni da quell’evento, analisti politici, commentatori e giornali americani ritengono che quella Caporetto potrebbe ripetersi. Il timore è nato dalla semplice osservazione dei candidati alle primarie repubblicane, le cui posizioni politiche (su tutti i fronti, dalle relazioni internazionali, all’economia fino ai diritti civili e all’immigrazione) sembrano essersi spinte verso l’ultra-conservatorismo e oltre, portando alla mente la stessa fallimentare strategia del ’64. I dibattiti tenutisi fino a ora dimostrano infatti come il confronto interno alla compagine del GOP si sia decisamente spostato verso destra, trainato dalla presenza di candidati “estremi” ma con un seguito consistente nell’elettorato conservatore. Il momentaneo successo di Donald Trump e Ted Cruz, andato di pari passo con il flop della candidatura di Jeb Bush, ha senza dubbio preoccupato l’establishment “moderato”, galvanizzando invece le correnti più radicali. L’endorsement di Sarah Palin a Trump e le indiscrezioni sulla possibile discesa in campo dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg (ufficialmente un indipendente, di fatto un vecchio repubblicano simpatico ai moderati di entrambi gli schieramenti), sono sintomi evidenti della crepa che percorre in questi mesi il campo conservatore.

Mezzo secolo fa l’immagine vivente del conservatorismo americano si chiamava Barry Goldwater. Nato nel 1909 a Phoenix, Arizona, e primogenito di un facoltoso imprenditore, Barry iniziò i suoi studi all’accademia militare di Staunton (Virginia) frequentando poi per un breve periodo l’Università di Tucson, dalla quale dovette ritirarsi dopo la morte del padre per portare avanti il business familiare, che sotto la sua guida crebbe e si innovò. Noto per il carattere schietto e spesso spigoloso, Goldwater divenne senatore per la prima volta nel 1952 nelle fila del partito repubblicano ponendosi subito alla destra del GOP, su posizioni che molti all’epoca consideravano agli antipodi del progressismo democratico. All’interno del suo partito era quello che con linguaggio moderno chiameremmo un “falco”: fermo sostenitore della crociata anticomunista del senatore McCarty, detrattore del New Deal, di cui diceva ogni male e al quale preferiva un capitalismo basato sul liberismo economico e sull’individualismo spinto e infine oppositore del Civil Rights Act (storica legge del 1964 contro la segregazione razziale) che considerava un’indebita ingerenza del governo federale nell’autonomia dei singoli stati. I capisaldi della corrente conservatrice di cui si pose a capo li rese noti nel celebre libro The Conscience of a Conservative, uscito nel 1960 e divenuto nel tempo il vademecum di ogni buon conservatore americano.

manzo-t1Demonizzato dai democratici, che vedevano in lui un impenitente reazionario, durante le primarie repubblicane del ’64 Goldwater fu osteggiato anche da gran parte dell’establishment del GOP, alienandosi minoranze e moderati, ma guadagnando le simpatie dell’ala destra del partito. La sua vittoria fu palese durante la Convention di San Francisco del luglio dello stesso anno, quando la platea coprì di fischi il suo principale competitor e storico rivale Nelson Rockfeller, leader della corrente liberal. Nonostante ciò, era passato solo un anno dalla morte di Kennedy e all’America dell’epoca, affamata di diritti e ancora inebriata dal carisma kennediano, Goldwater non piaceva. Non poteva essere altrimenti: oltre a rappresentare l’antitesi di Kennedy, persino nell’aspetto esteriore, l’arcigno repubblicano spaventò l’opinione pubblica affermando di non escludere l’utilizzo di armi nucleari nel confronto con i russi. Le ambizioni di Barry si infransero dunque alle presidenziali, benché la sua eredità sia stata raccolta e resa vincente da uno dei suoi più sfegatati ammiratori, Ronald Reagan. Da allora in poi, Goldwater divenne una sorta di “padre nobile” dei nuovi conservatori, i quali tuttavia preferivano citarlo che averci personalmente a che fare. Il combattivo senatore dell’Arizona mantenne infatti una forte autonomia, come quando negli anni ’80 difese a spada tratta la laicità del Grand Old Party scagliandosi contro l’ascesa della destra religiosa.

Tornando alla situazione attuale, alcuni opinionisti hanno paragonato Goldwater a Donald Trump, preconizzando per quest’ultimo la stessa ingloriosa caduta. Le similitudini balzano subito agli occhi, ma in fin dei conti sono piuttosto deboli: è vero, tutti e due sono businessmen di successo allergici a qualsiasi forma di governament intervention e con il gusto per le battute taglienti e provocatorie, ma a parte questo non esistono altri punti di contatto, oltre all’ovvia avversione dei moderati nei loro confronti. È palese infatti il tentativo populista di Trump di accreditarsi come candidato di rottura, fuori dalle logiche della dialettica interna al partito e persino ostile a parte del sistema mediatico conservatore, che tenta di piegare ai suoi voleri. Il sorprendente rifiuto di partecipare al dibattito di domani in Iowa, non a caso sponsorizzato da Fox News, sembra confermare questa strategia. Si tratta, in sostanza, di una sfida lanciata al network repubblicano per eccellenza, anche se il motivo addotto da Trump è la presenza della giornalista Megyn Kelly tra i moderatori del confronto, protagonista di una violentissima polemica con il magnate scoppiata lo scorso agosto.

Al contrario, se dovessimo cercare un Goldwater del terzo millennio (stando attenti a non cadere in grossolani anacronismi), quest’ultimo sarebbe il senatore del Texas Ted Cruz, visto da molti come uno dei favoriti nella competizione interna al GOP. Rispetto a Trump, Cruz è un esperto politico e sta cercando di ampliare i suoi consensi presentandosi all’elettorato come un ultraconservatore più affidabile del magnate newyorkese. È lo stesso Cruz, d’altronde, a rievocare in numerosi interventi la linea ideologica inaugurata da Goldwater, della quale si sente legittimo erede, con frequenti e ammirati richiami alla figura di Ronald Reagan. A differenza di quest’ultimo nelle elezioni del 1980, però, il senatore texano potrebbe non trovarsi di fronte un debolissimo Jimmy Carter, ma una rampante Hillary Clinton. Insomma, Cruz spera di imitare i successi di Reagan, ma in concreto rischia di fare la fine di Goldwater. Il che, a detta di alcuni, potrebbe perfino essere un bene, costringendo il GOP a dirottare verso prospettive più moderate i propri contenuti ideologici.

In verità è ancora troppo presto per fare previsioni e nessuno sa a quale destino andrebbe incontro Cruz nel caso riuscisse a scavalcare gli avversari repubblicani. L’esito delle prossime presidenziali dipenderà come sempre dal sentimento imperante nell’opinione pubblica americana, che dal ’64 a oggi si è trasformata radicalmente, con una middle class impoverita e in preda a mille paure. Per non parlare delle possibili “mine vaganti” in grado di far saltare tutti gli schemi, a partire dall’ascesa di Bernie Sanders tra i democratici, o ancora la citata candidatura di Bloomberg.

Evocato da fiumi di inchiostro, il fantasma di Goldwater potrebbe allora materializzarsi o semplicemente sparire, ritornando tra le pagine dei libri di Storia.

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Massimo Manzo

Massimo Manzo

Di madre americana e padre siculo, nasco tra le bellezze della Sicilia greca e gli echi del sogno americano. Innamorato della Storia, che respiro fin da bambino, trasferisco me e la mia passione a Roma. Qui, folgorato lungo la via, mi converto al giornalismo storico e di analisi geopolitica, “tradendo” così la laurea in legge nel frattempo conseguita. Appassionato di viaggi archeologici, oltre che della musica dei Beatles e dei campi da tennis, collaboro come giornalista freelance con più riviste di divulgazione, tra cui InStoria e Focus. Oggi mi divido tra la natia Sicilia e la città eterna, sempre coltivando l’amore per gli States.

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