Pizza, pasta, pesto, il tutto condito da un buon olio extravergine d’oliva, ed è subito Italia. Ma da dove nasce nel mondo la passione per il cibo italiano? È ciò che spiega il libro How We Fell in Love with Italian Food (Oxford, Bodleian Publications, 2019) di Diego Zancani, Professore Emerito di Lingue Medievali e Moderne all’Università di Oxford ed Emeritus Fellow del Balliol College di Oxford.
Il libro racconta la straordinaria diffusione dell’italian food, dall’eredità dell’invasione romana alla sua attuale, crescente popolarità nel mondo. Basando la sua indagine su manoscritti medievali, l’autore dissemina nella narrazione alcune ricette italiane diffuse in Gran Bretagna già nel XIII secolo e, attraverso diari di viaggio, esplora gli incontri con il cibo italiano e la sua influenza in terra britannica. Il libro mostra inoltre come gli immigrati italiani – dai gelatieri e droghieri a chef e ristoratori – abbiano avuto un’influenza fondamentale sull’evoluzione della cucina italiana, anche grazie all’apporto creativo di cuoche pionieristiche come Elizabeth David, Anna Del Conte, Rose Gray, Ruth Rogers e Jamie Oliver.
Corredato da splendide illustrazioni provenienti dagli archivi della Biblioteca Bodleiana, il libro include anche ricette regionali italiane che ci sono pervenute attraverso i secoli. Una vera e propria celebrazione del cibo italiano fra tradizione e adattamenti fast-food, in una fascinazione internazionale che non conosce sosta. Ne parliamo con l’autore.
Qual è stata l’eredità romana, in termini di cibi e condimenti, lasciata alla tradizione culinaria britannica?
“L’eredità dell’occupazione romana durata quasi quattrocento anni, dal 42 d.C. al 410 circa ha lasciato un’enorme quantità di nuove specie vegetali, ignote o scarsamente conosciute dal mondo celtico, dalle agliacee a vari tipi di cavolo e di rape, agli asparagi, ai cosiddetti “odori” mediterranei (sedano, carote ecc.) fino a nuovi alberi da frutto come il ciliegio, o a quelli utili per il legname e per l’olio, come il noce, oltre a miglioramenti delle razze bovine e suine, e l’introduzione di nuovi sistemi di conservazione dei cibi, come la carne salata. Le importazioni di vino e olio venivano utilizzate dalle classi abbienti in Britannia. A quanto pare ben poco rimase di queste tradizioni dopo le invasioni scandinave”.
Cos’ha rappresentato, nel mondo britannico, l’avvento della pasta?
“La pasta, intesa come farina di grano intrisa d’acqua, compare in un ricettario inglese per la tavola reale nel XIV secolo, ma non verrà adottata che all’inizio dell’Ottocento, quando Thomas Jefferson promuove gli amati macaroni agli onori della tavola presidenziale degli Stati Uniti. Anche i primi spaghetti vengono menzionati in un ricettario inglese del 1845, e rimangono un cibo di élite, fino al 1960 quando arrivano i primi esempi di pasta corta e ravioli in scatola, preparati da Ettore Boiardi, Chef Boy-ar-dee, in America. Subito dopo la pasta secca, prodotta con farina di grano duro viene riconosciuta come una grande risorsa per alcune classi sociali”.
In quale epoca si è avuta la maggiore influenza della cucina italiana in Gran Bretagna?
“Anche se piatti di origine italiana vengono menzionati in numerose raccolte di ricette dal Cinquecento all’Ottocento, direi che, dopo la scoperta di prodotti italiani (olio d’oliva, acciughe, capperi, olive, vermicelli, parmigiano) durante il Settecento e l’Ottocento – il periodo del Grand Tour – la maggior influenza della cucina italiana in Gran Bretagna è iniziata intorno al 1970, quando i primi supermercati hanno incominciato a importare prodotti genuini dall’Italia e si moltiplicano trattorie e ristoranti insieme a libri di cucina”.
Quali eventi storici e che tipologia di personaggi l’hanno determinata?
“I viaggi degli aristocratici inglesi e la susseguente comparsa delle Italian warehouses in Gran Bretagna hanno senz’altro dato un grosso impulso ai prodotti italiani, quali il formaggio parmigiano, le olive, il buon olio toscano, le acciughe, i capperi, i vermicelli. Ma la massiccia emigrazione che avviene a metà Ottocento in cui numerosi italiani raggiungono, spesso a piedi, Londra e altre città del Regno Unito, darà luogo alla creazione di un’industria che produrrà gelati, caffè, latterie e trattorie. Nel 1947 Anna Del Conte, la decana degli alimentaristi italiani, arriva in Inghilterra dove trova “un deserto gastronomico” ma poco dopo sorgono i primi negozi italiani nel quartiere di Soho a Londra. Nel giugno 1959 l’apertura della Trattoria Terrazza nota come The Trat) da parte di due camerieri italiani del Sud segnerà l’inizio di un trionfo del buon cibo italiano, preparato in modo attraente in un ambiente cordiale e informale”.
Gli show televisivi hanno avuto un peso nella diffusione del cibo italiano?
“Direi di sì. Personaggi come Nigella Lawson e Jamie Oliver hanno dato un notevole impulso alla conoscenza di piatti italiani. I programmi sui viaggi enogastronomici in Italia dai primi anni Ottanta fino a quelli più recenti di Stanley Tucci danno notevole visibilità e spronano il desiderio di provare allettanti piatti regionali”.
Quali sono i più tipici piatti italiani amati e adottati dalla cucina anglosassone?
“Anche per i piatti più “tipici”, come gli spaghetti al pomodoro, l’osso buco o la pizza si potrebbero menzionare periodi ben precisi, in ordine cronologico, e la diffusione di termini come carpaccio (inventato a Venezia nel 1964 per la mostra su Vittore Carpaccio, pittore del Quattrocento) per sottilissime fette di filetto di manzo, verrà estesa a molte pietanze, incluse verdure, sottilmente tagliate. Un dolce nato, a quanto pare, nel 1980 nell’Italia settentrionale si diffonderà rapidamente a livello globale, come il Tiramisù. L’influenza di ristoranti famosi, come il River Café di Londra o Chez Panisse in California è stata notevole. Negli anni Ottanta nessuno conosceva il cavolo nero in Inghilterra, mentre oggi si trova sui banchi di quasi tutti i mercati. La fortuna del salame piccante spalmabile di origine calabrese, la ‘nduja (dal francese andouille) è stata rapida e straordinaria e oggi si trovano pizze, paste, panini, verdure alla ‘nduja, e questo ha prodotto un incremento della produzione di peperoncino piccante in Calabria”.
A cosa si deve il crescente successo del cibo italiano nel mondo anglosassone?
“Principalmente al marketing e alle visite sempre più frequenti, soprattutto dopo la pandemia, di turisti nordamericani, inglesi e australiani in Italia. Anche l’emittente ABC di Sidney mi ha intervistato sulla storia del cibo italiano sostenendo, erroneamente, che nella carbonara ci vuole la panna! Anche un elemento di buona “salute” che esalta le virtù di una dieta “mediterranea” a base di verdure, frutta, pomodori, pasta e pesci, aiuta probabilmente nella scelta di sapori ben distinti, in cui entrano antichissime erbe, considerate medicinali, come l’aglio e la cipolla, o il porro”.
Cosa pensa degli adattamenti fast-food del cibo italiano?
“È inevitabile che il cibo venga adattato per ragioni commerciali, ma purtroppo non sempre quello che è a buon prezzo ha una qualità adeguata. Bisognerebbe quindi insistere sulla qualità degli ingredienti e sulla loro provenienza: il cibo è sapore e il sapore è sapere. Bisogna riconoscere i prodotti di eccellenza, e spesso i migliori risultati in cucina avvengono con applicazioni pazienti. Quindi, personalmente, sono in favore dello Slow Food, il cui mantra è che il cibo deve essere “buono, pulito e giusto”.
Inscatolamento e piatti precotti possono finire per pregiudicare il buon nome dell’italianità culinaria?
“Forse una volta si credeva che i convenienti cibi in scatola rappresentassero i sapori genuini. Una mia collega mi assicura che i ravioli in scatola che lei assaggiò negli anni Sessanta in Inghilterra “erano piuttosto buoni”, e perché no? I prodotti in scatola sono convenienti e molti precotti, come il cotechino, o come certe pizze preparate in Basilicata da una ditta italo-inglese, sono di buona qualità. Il che dimostra che è possibile usare ingredienti e procedimenti di qualità per maritarli alla convenienza e alla rapidità di preparazione nella cucina di casa”.
Il mercato che ruolo ha nel perpetuarsi della tradizione gastronomica italiana?
“La cucina italiana è essenzialmente cucina regionale. Basta vedere i numerosissimi tipi di pasta fatta a mano, e di condimenti prodotti da anziane signore nella serie Pasta Grannies sul canale YouTube. Molte di queste tradizioni locali sono state abbracciate nel passato dal resto dell’Italia. La pizza è senz’altro nata a Napoli nell’Ottocento come cibo di strada e solo nel dopoguerra si è diffusa nel resto della penisola e nel mondo. Quindi certamente il mercato influenza il successo e il perpetuarsi della tradizione, e al marketing si deve la fortuna di vari prodotti, anche se alcuni di vera eccellenza, come per esempio il culatello, rimangono ai margini dato il costo elevato”.
Il fenomeno dell’immigrazione italiana in Inghilterra del primo Novecento ha apportato ulteriori trasformazioni nella concezione del cibo?
“È del tutto naturale che gruppi di emigrati della stessa nazionalità desiderino cucinare piatti della loro tradizione, ma in Inghilterra era difficile trovare prodotti validi anche per piatti semplici come uno spaghetto al pomodoro, o trovare verdure come carciofi, zucchini o peperoni. Per fare un esempio: se un emigrato laziale desiderava farsi una carbonara a Londra, avrebbe certamente trovato uova fresche, ma il guanciale era probabilmente introvabile, e allora si sostituiva col bacon. È probabile che il parmigiano stagionato e il pecorino romano non fossero disponibili. Che fare, grattugiare un pezzo di Cheddar? Alla fine si aggiustava il tutto con un po’ di panna, cambiando così la ricetta “originaria”. Anna Del Conte ha parlato di cucina Britalian, che però dimostra semplicemente che ogni piatto è creazione a sé stante e come tale può sempre venire modificato secondo l’estro e la preferenza personale”.
Lei inserisce nel libro una serie di ricette tradizionali. Con quali criteri le ha selezionate?
“Le ricette inserite nel libro sono state scelte per illustrare un momento storico nello sviluppo del cibo italiano, o alcune scoperte di viaggiatori stranieri, come il riso e verze mangiato da Dickens. Dopo due ricette del periodo ”romano”, vi è quella degli gnudi, le palline di ricotta, spinaci, uova, parmigiano, e noce moscata. Questa ricetta è stata scelta per illustrare la continuità, dato che intorno al 1282 un dotto frate francescano racconta di aver mangiato per la prima volta dei “ravioli senza l’involucro di pasta”, e questi sono sopravvissuti in Toscana. Altre ricette riguardano esempi di tradizioni regionali, come l’osso buco o il peposo, o primaverili, come la zuppa di ortiche. Le ricette sono state tutte testate da me e dalla mia brava editor di Oxford”.
Lei stesso ama cucinare del cibo italiano?
“Ho incominciato a interessarmi del cibo come fenomeno storico, antropologico e linguistico mentre insegnavo in Gran Bretagna, ma ogni volta che tornavo nella mia città, Piacenza, mi piaceva aiutare mia madre in cucina e da lei ho imparato tantissimo: l’importanza degli ingredienti, la pazienza nel preparare un sugo (sia quello bolognese, sia quello di funghi porcini che ho condiviso con tanti amici), l’importanza della costante attenzione e dell’assaggio frequente. Oggi alle volte mi stupisco quando qualche amico mi scrive ricordando un’ottima zuppa di funghi, un fagiano in umido, un piatto di penne con sugo di fagiano, o degli zucchini o cappelle di funghi al forno, provati a casa mia tanto tempo fa e cucinati con l’aiuto e il sostegno di Valentina, mia moglie, a cui è dedicato il libro How we fell in love with Italian food”.