Come riconoscere all'estero l’autenticità della cucina italiana? Per aiutare la caccia all'italiano vero c'è la certificazione Qualità Italiana che martedì 23 settembre si è presentata al pubblico newyorchese in evento giunto alla sua quarta edizione.
Il nostro cibo – è cosa nota – ci qualifica nel mondo come specialisti dell’arte culinaria, secondo una tradizione millenaria che si offre in tutta la sua varietà regione per regione, paese per paese, a volte addirittura casa della nonna per casa dell’altra nonna. Insomma, quando si tratta di originalità e autenticità del gusto non abbiamo rivali al mondo. Lo sanno bene i turisti che accorrono in Italia per testarne i sapori, come quelli che, all'estero, fanno visita ai nostri ristoranti con rituale puntualità. Essendo, quello del made in Italy, un brand che conferisce già da sé un sigillo di qualità, bisogna difenderlo da chi sfrutta il nome dell’Italia per mandare avanti ristoranti che tutto è fuorché verace.
A questo scopo, la Camera di Commercio italiana, ogni anno, in collaborazione con ISNART (Istituto Nazionale di Ricerca Turismo in Italia), lavora per identificare un gruppo selezionato di ristoranti italiani (in Italia e, dal 2009, all'estero) che aderiscano a una serie rigorosa di linee guida. I ristoranti che soddisfano gli standard di qualità richiesti ricevono un attestato, che li qualifica come autentici ambasciatori della cucina italiana. Per celebrare il culmine della campagna di certificazione di quest'anno, a New York è stata organizzata martedì 23 settembre la quarta edizione di Ospitalità Italiana, un evento aperto al pubblico attraverso il quale queste roccaforti dell’alta qualità hanno potuto dar saggio della loro arte, offrendo degustazioni e specialità per palati fini: la loro cucina, infatti, cerca di riprodurre quanto più fedelmente possibile il gusto della tradizione, senza piegarsi all'esigenza di adattare i propri piatti alla terra che li ospita, come invece spesso accade in altri ristoranti che propongono fantasiosi accoppiamenti per incontrare il gusto americano.
I ristoranti che hanno aderito all'iniziativa sono 40, ospitati all'interno del Madison Pavillon, uno spazio ampio ed elegante che si è riempito di curiosi, giornalisti e appassionati ai nostri sapori, accorsi per godersi una serata di classe e di gusto. Oltre ai ristoranti, hanno fatto da sponsor tanti marchi d’eccellenza, per promuovere i propri prodotti e magari aprirsi un mercato negli Stati Uniti. Dal Manducatis, al Gattopardo, al Ristorante Rosi passando per Circo – cresciuto quest’ultimo fino a raccogliere un’intera catena di ristoranti in America e nel mondo, che siano sinonimo di qualità – i migliori chef della zona, di cui la maggior parte sono già ben conosciuti a New York, si sono sfidati a suon di prelibatezze, lasciando senza parole il pubblico festante.
Per rendere ancora più ufficiale questa occasione di convivialità ha partecipato all'evento anche il ministro dell’Ambiente e del Territorio, Gianluca Galletti. Tanta della raffinatezza gastronomica raggiunta viene da idee brillanti di cittadini italiani emigrati tanti anni fa, sfidando la sorte e la discriminazione. Diego, chef della Macelleria su Gransevoort Street (Maetpacking District), racconta di quanto insidiosa sembrasse all'inizio l’idea di riproporre a New York un taglio di carne tipicamente italiano, come la bistecca fiorentina, sperando che il pubblico potesse capirne le gioie: “Non sai mai come la prendono perché qui si mangia diversamente. Sergio e Violetta Bitici, padre e figlia, gestori e proprietari, hanno avuto una bella idea, ma è stata una sfida”. Quando gli chiedo, provocatoriamente, se sull'assaggino di salsiccia che ha preparato ci sia del coriandolo, mi guarda quasi inorridito: “Sei matta? È prezzemolo!”.
Ristoranti affermati oggi, sacrificio di ieri. Anthony del Manducatis restaurant, ci racconta quanto sia stato difficile per i suoi genitori tirar su il regno d’eccellenza, che rappresenta oggi il loro nome a New York: “All’inizio è stata dura, nessuno credeva che un italiano potesse far qualcosa di buono, ci additavano come sporchi e fannulloni. Oggi per entrare nei nostri ristoranti fanno la fila alla porta e questo è solo grazie all’impegno e al sudore dei miei genitori, alla loro forza nel non farsi abbattere”.
L’evento è stato un’ottima occasione per introdurre al mondo newyorchese 5 chef d’eccezione, arrivati da Bologna per dar saggio della loro arte di mastri cioccolatai e presentare in America il festival Cioccoshow di Bologna. Lunedì 22, in anticipazione dell'evento Ospitalità italiana, la pasticceria Eporedia, la Sorbetteria Castiglione, Regina di Quadri, Colazione da Bianca, Arlotti&Sartoni, cinque nomi che a Bologna già dominano in maniera indiscussa la scena dell’arte del cioccolato, si sono presentati al mondo, partendo da New York. Il miglior cacao del globo viene selezionato e lavorato esclusivamente con materie prime di alta qualità dagli artigiani del cioccolato bolognese e promosso tramite il festival, giunto alla decima edizione, che la città di Bologna ospita dal 12 al 16 Novembre. Un’occasione per conoscere una delle più belle città d’arte e di cultura che abbiamo in Italia, mentre si degustano le specialità dell’artigianato dedicato alle golosità del cioccolato. Giuseppe Sartoni ci racconta che “Bologna fu la prima città fuori dalla Spagna ad aver avuto cacao, in occasione dell'incoronazione di Carlo V, nel 1530 a piazza Maggiore, oggi sede del Cioccoshow”. Il legame tra questa città e il cioccolato risale al 1795, quando si sviluppò l’arte della sua lavorazione affermatasi poi come tradizione.
I cinque cioccolatai venuti a New York si conoscono perché hanno fondato insieme, nel 2003, Ciocchinbo, un’associazione dedita a mantenere alto lo standard della produzione di cioccolato a Bologna e che dal 2005 ha dato impulso al Cioccoshow. La selezione degli associati, anche se non tutti prendono parte al festival, avviene seguendo attentamente lo statuto della Camera di Commercio, come verifica di qualità. Lo scopo è quello di rendere sempre di più il nome della città di Bologna associabile alla produzione di cioccolato artigianale di altissimo livello. “Sono fiero di poter dire che, prima della fondazione di Ciocchinbo, a Bologna il 70% delle pasticcerie usava surrogato di cioccolato. Oggi nessuno o quasi”, commenta fiero Sartoni. Dopo un elogio delle qualità del cioccolato, antidepressivo e ottimo per aiutare il funzionamento del metabolismo soprattutto per gli sportivi, anche se, sostiene Sartoni, “bisogna mangiarlo perché è buono, non perché è una medicina”, il masterchef mette a disposizione la sua conoscenza di esperto per dare a noi de La VOCE una piccola perla di saggezza su come riconoscere il miglior cioccolato: “Ognuno ha i suoi gusti, non bisogna certo vergognarsi se si preferisce il cioccolato al latte. Ma se volete scoprire qual è la qualità del cacao usato, niente è più adatto del fondente: se è amaro, il cacao è di cattiva qualità. Il buon cacao ha un gusto rotondo. Noi siamo riusciti a realizzare una barretta di fondente al 100% che se non si avvalesse della miglior selezione di cacao sarebbe buona solo da sputare”. Infine, quasi per sfidarlo, una provocazione: perché mai uno dovrebbe andare al Ciocoshow di Bologna anziché a Torino o a Perugia, già note come città del cioccolato? Sartoni risponde senza alcuna esitazione: “Perché il nostro è l’unico festival dell’artigianato del cioccolato. Sia a Bologna che a Torino ci sono di mezzo le industrie come la Ferrero o la Perugina. Noi, per distinguerci, puntiamo sull’arte del piccolo esercizio, sull’amore della creazione materiale di ogni singola pralina o dolce esposto al festival”. Provare per credere.