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ITINERARI/ Il gioiello di Porto Torres

Paola MillibyPaola Milli
Time: 5 mins read

Per risalire alle origini di “Turris Libisonis”, l’antico nome di Porto Torres, uno dei porti più importanti della Sardegna, nel nord-ovest dell’isola, occorre risalire così indietro nel tempo da perderne la memoria. Risalgono, infatti, a dieci milioni di anni fa i numerosi fossili vegetali e animali rinvenuti sul territorio, unitamente alla scimmia antropomorfa “Orepitheco”. Ma seppure si volesse adottare un colpevole e ingiustificato oblio nei confronti di un passato così remoto da sfuggire ad una classificazione dettagliata di reperti di non facile interpretazione, non è possibile in alcun modo sottrarsi alla presenza significante dei siti archeologici presenti nell’area: la necropoli di “Su Crucifissu Mannu” e “Li Lioni”, le “domus de janas” e l’altare di Monte d’Accoddì, prenuragico che richiama una “ziqqurat” mesopotamica.

Porto Torres divenne colonia romana per volontà di Giulio Cesare, tale è l’atto fondativo della città, nel 46 a.C., testimonianza di questo dominio resta il Ponte Romano, attraverso il quale passavano i collegamenti con l’entroterra per il trasporto del ferro, del rame, dell’argento estratti dalle miniere vicine. Oggi quel che rappresenta con maggiore efficacia il valore culturale e spirituale di Porto Torres è racchiuso tutto nel maestoso monumento religioso romanico più antico della Sardegna, la Basilica di San Gavino (nelle foto), oltre cinquantotto metri di lunghezza e oltre diciassette di larghezza, alta dal pavimento alle travi più di unici metri, la cui costruzione risale al 1030, per volere del Re Comita che concepì un ideale di magnificenza in contrasto con l’esiguità del luogo, scarsamente popolato su Monte Agellu e nel borgo marinaro di Portu di Turres. Comita era Re e Giudice di quel che fu in origine l’antica colonia julia di Turris Libisonis, ma anche del regno di Arborea che con Gallura e Calari componevano i grandi regni della Sardegna. A volerlo sul trono fu la volontà dei “lieros”, i non schivi, uomini liberi di Arborea che ne apprezzavano le doti di amministratore nella politica e nella giustizia. Tuttavia Re Comita attraversò non poche vicissitudini personali, legate all’odiosa malattia che lo colpì, la lebbra, e si vide costretto a delegare molto del suo potere alla sorella Giorgia, un’abile guerriera, capace di amministrare i vari regni affidateli. Si racconta che Comita fosse in attesa della morte ed ebbe, invece, in sogno il dono dell’apparizione di San Gavino che gli propose di costruire sul Monte Agellu una chiesa a lui dedicata, in cambio della sua guarigione. Si ritiene che Gavino fosse un soldato romano dell’epoca dell’imperatore Diocleziano, perseguitato come cristiano per volontà di Barbaro, preside di Corsica e Sardegna, e per questo beatificato come martire. Nel sogno di Re Comidolta, San Gavino pregò il Re di trasportare nella basilica le reliquie dei Martiri Turritani Gavino, Proto e Gianuario, uccisi nelle persecuzioni contro i cristiani. Tutto andò secondo la volontà del Santo, il Re avviò la costruzione dell’edificio la lebbra abbandonò il suo corpo alla guarigione, i resti dei martiri furono posti nella Basilica senza indicazioni che ne segnalassero la presenza, per sfuggire ad eventuali ritorsioni dei corsari islamici.

Furono i “mastros de pedra e de muru”, fatti venire da Pisa, ad intraprendere la costruzione dell’imponente luogo di culto e ad accorgersi, mentre edificavano l’abside orientale, dei resti di un “martyrium”, di grandi dimensioni, in cui venivano custodite reliquie di martiri. Per questa ragione la costruzione della facciata venne sospesa e si provvide a realizzare una nuova abside a occidente, con l’accesso alla Basilica sul fronte meridionale, da una piazza che ha nome Atrio Metropoli.

Lo stile romanico e la sobrietà intensamente attestano la suggestione del luogo che supera il concetto di sacralità in nome di un più assoluto e vulnerabile spirito umano di armonia ed equilibrio, nella dolcezza delle forme e nel rigore delle stesse, di ciò si resta dolorosamente colpiti, al suo interno, percorrendo la solida geometria delle tre navate, perdendo e ritrovando un nuovo e più forte ideale di fede, oltre la diversità e molteplicità dei culti. La pietra impiegata nel paramento murale è il calcare; a fornirla fu la “Grutta di lu Farrainaggiu”, una cava non lontana dalla Basilica. Re Comita non riuscì a vedere l’opera completata, i lavori proseguirono durante il regno di suo figlio Barisone, ma ad inaugurarla fu nel 1080 Re Mariano I, divenendo la Basilica Archidiocesi durante il Pontificato di Gregorio VII, rimanendo cattedrale dell’Arcivescovo di Torres fino al 1441.

L’epoca barocca portò alla riesumazione delle sacre reliquie dei tre martiri, per volontà di Gavino Manca de Cedrelles, Arcivescovo di Torres che nel 1614 ordinò di scavare fino alle fondamenta della Basilica, portando alla luce i sacri resti dei martiri, ritrovati all’interno di urne recanti titolazioni di riconoscimento, insieme a molti altri resti, in quel luogo era sorta, infatti, diversi secoli prima una necropoli. Volutamente lo scavo rimane testimonianza della ricerca poiché non venne ricoperto, creando una galleria attraverso la quale si giunge al cospetto delle reliquie dei Martiri Turritani, accolte nel sarcofago romano risalente alla colonia julia di Turris Libisonis, deposto nella parte più profonda della cripta, mentre l’anticripta conserva un sarcofago medievale in trachite rossa, occorre sottolineare, però, la ricchezza incomparabile di reperti d’arte di epoche storiche diverse, emersi in vent’anni di scavi, un tesoro che non ha prezzo, testimonianze di tre cattedrali del IV, V e VII secolo, mosaici e affreschi murali.

 L’uso di conservare le reliquie è proprio della religione cattolica, si venne affermando dalle origini del cristianesimo, i martiri essendo ritenuti “portatori di Cristo”, così definiti da Tertulliano nel «De Pudicitia», in grado di intercedere presso Dio. Fu forse leggenda il racconto che vuole il Re Giudice Comita autore del rinvenimento dei resti di Gavino, Proto e Gianuario, martiri cristiani, anche se antiche tradizioni indicavano già il Monte Agellu come la sacra sepoltura dei tre. All’inizio del secolo XVII le due città di Cagliari e di Sassari si contesero il primato delle rispettive Chiese Cattedrali; per garantire alla propria sede il maggior numero di martiri, all’interno delle chiese più importanti delle due diocesi, si decise di praticare scavi allo scopo di riesumare “los cuerpos santos”, fu così che si avviò il lavoro di riesumazione nella Basilica di San Gavino. Di questa procedura esiste, conservata negli archivi storici, la registrazione realizzata giorno per giorno, una specie di “diario di bordo” degli scavi. Da una ricognizione effettuata nel 1991 sullo stato di conservazione delle reliquie, emerse la necessità di interventi immediati e risolutivi, per porre fine allo stato di sfaldamento a cui andavano incontro inesorabilmente, così si procedette all’opera di restauro, constatando poi che la ricorrenza dei 1700 anni del martirio è venuta a coincidere con il completamento del restauro delle stesse reliquie, il 25 ottobre 2003, nel XVII centenario del martirio di Gavino, Proto e Gianuario.

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Paola Milli

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