Nadia (Alma Noce) è un’introversa sedicenne di Trieste che studia all’Istituto Alberghiero con buoni risultati, ma non ha amici perché “non sopporta nessuno”. È una ragazza solitaria, introversa e con un animo ribelle. Il suo atteggiamento a tratti scorbutico nasconde però in realtà una necessità profonda di affetto e di considerazione, sentimenti che le vengono costantemente negatianche dal contesto familiare, con i genitori che hanno sostituito la voglia di stare insieme con il tran tran quotidiano e dove manca il sostegno delle parole, sostituite dagli sguardi.
L’unico a darle attenzioni è il giovane Brand (Luca Zunic), un senza lavoro che ha abbandonato gli studi. Nadia lo incontra durante uno dei suoi vagabondaggi pomeridiani in giro per la città, lui la invita a fare una passeggiata fino alla casa dello zio, con la scusa di farle vedere una pistola rara: qui il giovane, apparentemente gentile, si rivela essere tutt’altra persona!L’incontro per lui è infatti solo l’occasione per uno stupro, spinto dalla convinzione (ahimé propria ancora di molti nella nostra società!) che se ha accettato di salire in casa significa che è disponibile per un rapporto sessuale! Brand non si rende quasi conto della gravità di ciò che ha fatto, mentre Nadia, temendo ulteriori violenze, si chiude ancora di più nel suo silenzio. Un silenzio che in famiglia nessuno si preoccupa di indagare. Lei vive un’esperienza traumatica e non trova negli altri l’empatia necessaria per rendersene conto fino in fondo. Le conseguenze dello stupro subito stravolgeranno la vita di Nadia, offrendole però anche una via d’uscita dalla sua solitudine.
Già apprezzato all’ultimo Festival di Venezia, arriva finalmente nei cinema italiani La ragazza ha volato, ultimo lungometraggio di Wilma Labate, che ha sempre affrontato temi ‘scomodi’ e di forte impatto sociale (La mia generazione-1996; Domenica-2001; Signorina Effe-2006 e tanti ottimi documentari, tra cui lo splendido Arrivederci Saigon-2018).
Il film ha in sé una forza dirompente che ti inchioda a riflettere su tante presunte “certezze di comportamento” personali e sociali: non è un film “pro-vita”, nel significato cattolico del termine, ma nel quale passo dopo passo mette a fuoco la radicalità della decisione anticonformista di Nadia, perché il dare vita al nascituro significa per lei anche poter riscattare sé stessa e “spiccare il volo” verso la vita.
La ragazza ha volato è un film che racconta la violenza sessuale da un punto di vista inedito: racconta non solo l’incapacità di denunciare ma anche quella di parlare, di condividere quanto accaduto anche con un familiare. Il film scava nel mondo, nelle emozioni e riflessioni di una giovane che deve in tutto e per tutto muoversi da sola: persino il giorno del parto è lei, senza nessuno ad accompagnarla, a recarsi in ospedale. E’ un film “quasi muto”,fatto soprattutto di sguardi che dicono più di molte parole (bravissima la 22enne Alma Noce, qui alla sua seconda interpretazione dopo essere stata la controparte adolescente di Micaela Ramazzotti ne Gli anni più belli, di Gabriele Muccino)e dove la regista (co-sceneggiatrice del film assieme ai fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo) ha evitato di concentrarsi sul fatto di cronaca, e farne magari un’analisi sociologica, mettendoinvece al centro il percorso interiore della protagonista, che con i suoi sguardi ci interroga nell’intimo.
Altro lato positivo del film. Come detto, Nadia parla poco (“tiene tutto dentro” come dice sua madre), è un’adolescente che vive per sé quel clima di inerzia, di indolenza, anche psicologica, che tanto pervade oggi molti di noi, non solo giovani: Wilma Labate ha scelto – fortunatamente, per la buona riuscita del film – di non presentarla circondata da una vita di degrado – evitando così cliché abusati – ma in un ambito familiare dove però i sentimenti, che dovrebbero trovare lì maggiore conforto, sono invece repressi da una routine di silenzi e cose date per scontate.
Un’ultima considerazione sul valore di La ragazza ha volato, un film che ci presenta il più duro “racconto di formazione”, quello dello stupro e del suo superamento attraverso la maternità. La violenza subita da Nadia viene mostrata senza troppe censure e filtri. Quanto viene mostrato è realistico, purtroppo: dopo gli attimi iniziali, quel lungo, angosciante atto di violenza viene vissuto attraverso il volto di Nadia, per non dare spazio a sguardi pruriginosi che nulla hanno a che vedere con la cinematografia di Wilma Labate.

La regista romana ci ha concesso un’intervista esclusiva.
Nel film lo stupro è mostrato in modo crudo, con un piano sequenza senza stacchi che si sofferma per lo più sul volto della vittima: voleva dirci che troppo spesso questi eventi vengono ancora “accettati”, se la donna dice sì ad un invito a casa, e tenuti nascosti?
“Penso che, senza esagerare, a prescindere dal livello dell’abuso, della violenza, anche un piccolo abuso, tipo una mano che va in un posto dove non dovrebbe andare, ogni donna lo ha subìto e purtroppo molte donne lo tacciono. Mi interessava raccontare un abuso, una violenza non roboante, non eclatante, non particolarmente aggressiva, ma ho cercato di dare a quella scena –senza presunzione – una certa sottigliezza, cioè per esempio lui non la picchia e Nadia non riesce a ribellarsi proprio perché, secondo me, spesso succede che una donna in quei casi pensi‘purché finisca presto, purché non mi faccia ancora più male’ e quindi ho pensato di non rendere troppo brutale la scena, ma quasi di depurarla dalla brutalità, per mettere invece in risalto l’altissimo livello di violenza anche psicologica presente nella scena, perché lei non vuole mentre per lui è quasi ‘normale’ invece”.
Insomma, per Brand, vissuto in certi schematismi sociali, è come se fosse, diciamo così, una violenza non violenta: è solo un problema culturale?
“Beh, molto è un problema d cultura ma poi c’è anche un problema di carattere. È un ragazzino estremamente superficiale e purtroppo molto aggressivo nella natura, molto aggressivo nella cultura e nella educazione e quindi per lui ‘se lei ci va a casa sua allora ci sta’. È questa la cosa che mi interessava più di tutto. Spesso al cinema uno stupro viene raccontato in modo estremamente eclatante, con scene di violenza brutale, con degli schiaffi sonori, del sangue che esce, lei che tenta di ribellarsi e questo però rende il tutto più cinematografico e meno realistico. Purtroppo la realtà è molto più crudele”.
Nadia parla poco in tutto il film ma i suoi sguardi “fanno conversazione”, con primi piani e occhi che dicono tante cose:ho molto apprezzato questa valorizzazione del silenzio.
“Beh, perché anche in questo caso era forse più facile fare un film di parole, di dialoghi magari serrati, di battutacce, mentre il silenzio è come più doloroso, più pesante. La sua rabbia, il suo dolore mi sembrava che venisse fuori di più con questi lunghi silenzi: fortunatamente, altrimenti probabilmente avrei preso un’altra strada. Ho incontrato una giovanissima, acerba attrice però tanto versatile, a cui mi sono dedicata con grande cura e con affetto, come farebbe una madre, una zia, una nonna molto più grande di lei, per cercare di farla lavorare, appunto, soltanto con la faccia, con gli occhi. Ho avuto una bellissima freccia al mio arco,questo devo riconoscerlo, perché Alma Noce è un’attrice acerba ma molto talentuosa, molto sensibile”.
Ha avuto problemi a girare quella scena?
“Beh, un pochino. L’abbiamo preparata per tanto tempo, non solo fingendo la scena, ma parlando moltissimo con lei e anche con luiperché neanche lui era preparato, nel modo più assoluto: era spaventato perché anche lui è un ragazzino, addirittura più giovane di lei con i suoi 19 anni contro i 20 di lei al tempo delle riprese”.
Il film non invita a schierarsi a favore o contro l’aborto o sul denunciare o no il ragazzino: ci invita invece soprattutto a capire che di fronte a questi fatti la cosa iniziale più importante è sempre quella del rispetto della vittima, anche se magari non sei d’accordo con le sue scelte, perché il rispetto dell’opinione altrui è sempre molto importante per poter iniziare a capire certi fatti.
“Io penso che al di là delle scelte ‘politiche’ o del rispetto dei diritti – che assolutamente vanno strenuamente difesi – conta l’autodeterminazione di una donna. Quell’età così difficile,ingrata, quell’adolescenza in cui tutti abbiamo sofferto, abbiamo vissuto con dolore, è comunque un passaggio dal quale si esce con la consapevolezza dell’autodeterminazione. Nadia fa una scelta non consona, diciamo, oltretutto neanche comoda perché questo bambino naturalmente determinerà tutto il suo futuro, dovrà andare a lavorare, dovrà smettere di studiare, per molti anni dovrà continuare a vivere con i genitori, però è come un’affermazione della sua identità: attraverso questa nascita lei si acchiappa un’identità e soprattutto è meno sola e forse lo fa semplicemente per questo, per sentirsi meno sola perché è una ragazza che si porta dentro una solitudine davvero immensa. Comincio il film con un piano sequenza in cui la macchina si muove verso terra elo chiudo con la macchina che invece si alza verso l’alto. Dal titolo del film, mentre lo guardiamo palpitiamo di paura perché abbiamo spesso il sospetto che lei voglia volare dalla finestra mentre questa macchina da presa che si alza sopra il suo balcone verso altre situazioni è un piccolissimo volo verso l’autodeterminazione, verso una solitudine meno dolorosa perché c’è un bambino e poi perché mi interessava dire che la vita è fatta di tantissime cose e la realtà è sempre terribilmente più stupefacente della finzione e quindi ho raccontato la storia di Nadia che abita al settimo piano, ma se fossi andata all’ottavo,dove poi andata la macchina da presa, avrei comunque trovato un’altra storia da raccontare”
C‘è un regista che più di altri l’ha ispirata?
“Io sono un po’ cresciuta con il cinema americano degli anni ’70, che, naturalmente, mi rendeva felice e che mi ha fatto scoprire una serie di cose tra cui l’America perché poi ci dimentichiamo sempre di ammettere, noi che americani non siamo, che più di un viaggio turistico di due settimane a New York è stato più importante per noi aver visto un film di Cassavetes, o di Altman, per entrare nel cuore della cultura americana. Il cinema di quegli anni è stato importantissimo per me, però non posso negare che è tato il cinema italiano che mi ha formato, il cinema dei ‘mostri sacri’. Tra l’altro mi sono accorta che avrei dovuto fare cinema, e nient’altro, facendo l’assistente, non pagata oppure molto poco, di alcuni grandi registi. Per Monicelli io ‘aiutavo il regista a mettersi il cappotto’. Non ero importante, portavo il caffè a lui, Scola, Montaldo, ed altri, ma rubavo con gli occhi il mestiere, ogni momento. Quindi devo molto a loro e devo dire anche che erano sicuramente ‘crudeli’ nei miei confronti, perché mi prendevano in giro, perché non me ne passavano una, però erano abbastanza affettuosi e generosi: cosa che purtroppo i più giovani, o i giovanissimi di adesso, mi sembra che non lo siano molto”.