Mondo del cinema in lutto, in grave lutto. All’età di 91 anni, dopo la scelta del suicidio assistito, è morto Jean-Luc Godard, regista simbolo della Nouvelle Vague, movimento cinematografico francese di fine anni ’50, composto quasi totalmente da una generazione di giovani registi, disinvolti, inquieti, che sentivano l’esigenza di ribellarsi ad una cinematografia distaccata dalla realtà e che enfatizzava le convenzioni consolidate rispetto all’innovazione, alla sperimentazione di una cinematografia-testimonianza in tempo reale, del quotidiano: attacca il cosiddetto cinéma de papa (cinema di papà), ovvero un certo modo commerciale di fare film in Francia. Non può accettare che il cinema sia ridotto a semplice bene di consumo.
Godard è un regista che grazie alla sua insaziabile curiosità e alla sua voglia di osare ha plasmato il linguaggio cinematografico.
Uno dei più grandi artisti di sempre della settima arte, Godard, fin da giovane animato da un’insaziabile curiosità, non ha iniziato subito la sua carriera come regista, ma come critico cinematografico (molto severo) su alcune riviste, tra cui la prestigiosa Cahiers du Cinéma (vi scriveva con lo pseudonimo di Hans Lucas).
Mentre frequenta l’università La Sorbona, a Parigi, diventa amico di François Truffaut, Eric Rohmer, Jacques Rivette, Louis Malle, cioè il gruppo storico della Nouvelle Vague.

Dopo alcuni esperimenti cinematografici, cortometraggi e documentari, debutta nel lungometraggio come regista e sceneggiatore di Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1959, con i bravissimi Jean Paul Belmondo e Jean Seberg) ed è subito un successo: si aggiudica l’Orso d’Argento al Festival di Berlino. Il film, girato in quattro settimane, quasi sempre con una cinepresa a mano e con pochi soldi in tasca, mostra già i caratteri che saranno propri della Nouvelle Vague: montaggio sconnesso, struttura narrativa apparentemente sbagliata, attori che si rivolgono direttamente al pubblico attraverso la macchina da presa. Possiamo dire che con quel fondamentale film, che ebbe un effetto deflagrante, la storia del cinema ha un prima e un dopo Godard!
Bernardo Bertolucci, che l’ha sempre stimato, ha detto di lui in un’intervista che “Godard ha la stessa importanza di un mostro sacro come Charlie Chaplin”. E’ impossibile dargli torto, sepensiamo all’influenza che il cinema di Godard ha avuto su tutti i giovani autori americani della New Hollywood, Arthur Penn e Martin Scorsese in testa, seguiti poi da Quentin Tarantino e Tim Burton che l’hanno omaggiato chiamando la loro casa di produzione A Band Apart, da una storpiatura del titolo di un’opera godardiana per eccellenza, ovvero Bande à part (1964).

Godard fu maestro anche nel girare con pochi mezzi, soldi e in poche settimane: dopo Fino all’ultimo respiro, in soli sette anni girò ben 14 film, tra cui I sette peccati capitali (1961), Questa è la mia vita (1962, Leone d’Argento alla Mostra di Venezia e con protagonista la prima moglie, e musa, Anna Karina), Il disprezzo (1963, dal libro di Alberto Moravia, con Michel Piccoli e Brigitte Bardot), il già citato Bande à part con cui porta sul grande schermo uno dei balletti più belli e bizzarri mai visti al cinema. Quel periodo fu il suo canto del cigno: dopo Godard passa alla critica politica e sociale con La cinese (1967), di cui è protagonista l’attrice Anne Wiazemsky che ottiene il Leone d’Argento alla Mostra di Venezia e che sposa durante la lavorazione del film, dopo aver divorziato da Anna Karina). E’ un cinema, quello successivo, legato al movimento del ’68, al maoismo, alle opere collettive, senza però più riuscire a riprendersi la ribalta e la centralità di un tempo.
Il cinema di Godard ha sì trovato, e trova ancora, tanti estimatori ma anche tanti critici tra i registi stessi, forse per il suo modo di raccontare o la sua proposta spesso intellettuale. Ingmar Bergman ha commentato così il suo cinema: “Non ho mai ricevuto niente dai suoi film. Mi appaiono costruiti, intellettualmente falsi e completamente morti. Cinematograficamente poco interessanti e infinitamente noiosi. Godard è una fottuta noia”. Anche per Werner Herzog : “Qualcuno come Jean-Luc Godard – disse – per me equivale a soldi falsi se comparato ad un buon film di kung-fu”.
Jean-Luc Godard è così: o lo ami o lo odi. Truffaut, suo vecchio amico, è passato dalla prima alla seconda opzione. A fine anni Sessanta i due, infatti, sembrano aver interrotto i rapporti di amicizia a causa di scontri sulle diverse ideologie politico-estetiche. Questo perché durante gli anni con Anna Karina Godard pian piano prende le distanze dalle correnti in voga, sperimentando altre strade. Godard, pioniere del nuovo, è un regista che grazie alla sua insaziabile curiosità e alla sua voglia di osare ha plasmato il linguaggio cinematografico, facendo diventare il Cinema ciò che oggi conosciamo.
Da molti anni di Godard non si aveva traccia alcuna: il regista, “eremita” a Rolle, paesino svizzero a pochi chilometri da Ginevra, si era ritirato dalla vita pubblica, al punto che non solo non rilasciava dichiarazioni o interviste, né partecipava a cerimonie in suo onore o riguardanti i suoi film (Non ha mai ritirato l’Oscar alla carriera conferitogli nel 2011).
Godard viveva a Rolle con Anne-Marie Mieville, artista multimediale, sua seconda moglie. Con lei ha collaborato a più di una decina di film che, guarda caso, spesso sono indagini nel cuore delle relazioni di coppia come Numéro deux (1975), Si salvi chi può (la vita) (1980) e Je vous salue Marie (1985). Un segnale inequivocabile che per Godard vita e cinema sono sempre stati indissolubilmente legati.