Chissà cosa penserebbe Pasolini se vedesse il grande interesse che la nostra cultura nutre ancora nei confronti della drammaturgia eduardiana, dopo almeno sessant’anni dall’affermazione di Eduardo De Filippo come una delle figure chiave del teatro contemporaneo italiano.
Era infatti nota l’elezione di Napoli a città animica del poeta, linguista e regista di Casarsa; tanto da definire Napoli come “l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio”.
La prova più schiacciante del legame di Pasolini con Napoli fu innanzitutto il film “Decameron” dall’opera di Boccaccio, infatti solo tre erano le novelle partenopee, ma il regista ne traspose altre dando vita ad un’ambientazione molto estesa della napoletanità.
Questo legame indissolubile con Napoli e il suo profondo realismo “magico” fu la spinta al collegamento artistico con Eduardo e la sua compagnia di attori, che collaborò con Pasolini nel doppiaggio del suo film “Accattone”.
La stima fra i due era reciproca anche per la comune fede e cultura laico-marxista.
Avrebbero dovuto girare assieme “Porno-Teo-Kolossal”, ma non ebbero il tempo, a causa della prematura morte di Pasolini, che scosse profondamente Edoardo.
Oggi l’eco pasoliniana risuona molto nei teatri e nelle sale cinematografiche e abbiamo potuto osservare con chiarezza l’interesse di grandi maestri sia del cinema che del teatro per Eduardo e i suoi fratelli.
Infatti non emerge esclusivamente la forte personalità del severo regista partenopeo, ma anche quella di attore e di collaboratore di una folta saga familiare, in cui la storia degli Scarpetta si interseca con quella dei De Filippo, fino alla loro autodeterminazione e affermazione di portavoce della cultura del dopoguerra in italia.

Come non ammirare nel magistrale “Qui rido io” di Mario Martone la causa dell’insofferenza eduardiana, individuata in un padre padrone, maestro e dittatore dell’arte teatrale “farsesca”, di cui Eduardo e i fratelli Titina e Peppino si appropriano per poi trasformarla in realismo e ammantarla del sapore della tragicommedia italiana?
Stupende le immagini e i dialoghi emblema dell’invischiamento familiare degli Scarpetta: “Non lo vedi che simmo tutti fratelli” dice il maggiore dei fratelli Scarpetta al piccolo Eduardo.
Si arriva poi alla delicata e profonda regia di Sergio Rubini dei “Fratelli De Filippo”, in cui ci sembra quasi rintracciare una risposta all’opera di Martone: è impressionante come vengano definite e delineate le figure dei tre grandi attori e fratelli napoletani nel difficile processo di affrancamento dal loro “padre” illegittimo, i quali unendosi attraverso il contrastato amore fraterno, riescono ad imporsi anche come artisti di livello nazionale.
Carlo Cecchi, invece, con la regia di “Sik Sik l’artefice magico” ci restituisce una deliziosa visione teatrale del mondo del realismo più concreto sovrapposta a quella di matrice surrealista, in cui si percepisce la bellezza e l’amarezza di mondi opposti che convivono nella cultura partenopea senza mai stridere, ma evocando il pensiero pasoliniano di una cultura partenopea, come l’unica rappresentativa di un mondo che non era andato ancora perso.
Toccante ed esilarante lo spettacolo di Cecchi, che senza elementi ridondanti o eccedenti rispetto alla drammaturgia, riesce a donarci uno spettacolo perfetto nella sua iconica immagine eduardiana.
Il cinema immortala e rende accessibile alle masse, ciò che solo il teatro può ricreare senza artifizi, nella più diretta e autentica verità letteraria.
Martone, Rubini e Cecchi come una testimonianza della dogmatica verità del teatro eduardiano e delle matrici della nostra cultura contemporanea.