L’Europa è nel pieno della quarta ondata della pandemia, persistono numerosi problemi economici per quelle categorie sociali ed attività già colpite duramente dai passati lockdown: come, ma non solo, molte famiglie, costrette a vivere in una condizione di incertezza costante in termini di salario, e i cinema che, nonostante i recenti mesi di “zona bianca” nazionale non riescono a tornare almeno ai livelli di incassi precedenti alla pandemia, causa anche alcuni ostacoli architettonici – poca ampiezza di molti locali – e burocratici – tra cui il green pass (necessario, sono d’accordo, non mi si fraintenda) – che inducono chi deve andare al cinema a pensarci magari due volte prima di uscire di casa.
Di positivo c’è comunque che se prima a frequentare le sale era un pubblico per lo più anziano, ora al cinema si vedono anche molti giovani: frustrati dal lockdown e stufi dell’abbuffata di film in streaming che ti isolano socialmente a casa?
Indubbiamente c’è la preoccupazione che, con l’attuale risalita dei contagi, ci possano essere nuove chiusure che potrebbero creare ulteriori difficoltà ad un settore già stanco, ma di sicuro non è svanito l’amore del pubblico per i film, la cui produzione sta continuando a buon ritmo: se non altro perché le piattaforme, che grazie al lockdown hanno visto aumentare in misura stellare i propri profitti, avranno più che mai bisogno di prodotto. Senza l’industria dei sogni, il business non va avanti. E forse nemmeno il mondo.
Da un sondaggio del marzo scorso di Hearst Italia è risultato che il 52% degli intervistati vorrebbe tornare ad una programmazione che vede prima i film in sala (la magia dello schermo grande!!) e poi, solo dopo, in streaming e il 31% chiedeva solo film esclusivi per la sala!
Detto questo, continua nelle sale una programmazione di prim’ordine, con la speranza di stanare il pubblico dalle case. La risposta sembra per ora positiva, anche se non ottimale, pur se le proposte sono davvero allettanti.
A cominciare da “Un eroe“, dell’iraniano Asghar Farhadi (Una separazione, Il cliente), vincitore del Gran Premio della Giuria al recente 74° Festival di Cannes. Dopo “Tutti lo sanno“, il regista torna a girare in Iran e insiste sul suo cinema in cerca di un’armonizzazione impossibile tra personaggi traumatizzati da eventi che li sovrastano e la realtà nella quale si muovono. Ancora una volta il protagonista è un uomo costretto a confrontarsi con una serie di legami che lo spingono a fare i conti con sé stesso.
“Un eroe” ha il suo fulcro tematico nella potenza della comunicazione mediatica, e su come questa riesce a strumentalizzare la vita anche dell’uomo più comune. Rahim Soltani (Amir Jadidi) ha contratto un debito che non può onorare e per questa sta scontando da tre anni la pena in carcere. Separato dalla moglie, che gli ha lasciato la custodia del figlio, sogna un futuro con Farkhondeh (Sahar Goldust), la nuova compagna che trova accidentalmente una borsa piena d’oro. Oro provvidenziale con cui “rimborsare” il suo creditore. Rahim pensa di venderlo ma poi decide di restituirlo e mette un annuncio. La legittima proprietaria si presenta, l’oro è reso e il detenuto è promosso al rango di eroe virtuoso dall’amministrazione penitenziaria che decide di cavalcare la notizia, mettendo a tacere i recenti casi di suicidio in prigione. Rahim diventa improvvisamente oggetto dell’attenzione dei media e del pubblico, ma l’occasione di riabilitare il suo nome, estinguere il debito e avere una riduzione della pena, diventa al contrario l’inizio di una reazione a catena dove ogni tentativo di Rahim di provare la sua buona fede gli si ritorcerà contro.
Farhadi mostra ancora una volta, in “Un eroe“, una società iraniana sempre più kafkiana, logorata dalla burocrazia, dalle ripicche, dallo scetticismo e dalla manipolazione degli eventi e delle persone. Chi è l’eroe del film, l’uomo senza macchia pronto ad immolarsi per la causa? Tutti e nessuno: siamo noi a dover prendere posizione, sempre noi a dover credere o no alle buone intenzioni di Rahim.
C’è anche in sala un film che parla di noi stessi, delle nostre vite, dei nostri difetti e della nostra vita di coppia, con dentro la passione e la sofferenza della nostra quotidianità, come nel ben accolto “Lasciarsi un giorno a Roma“, sesta regia dell’attore Edoardo Leo (tra cui, i successi di “Buongiorno Papà“, “Noi e la Giulia” e “Che vuoi che sia“).
A titolo di cronaca, diciamo subito che”Lasciarsi un giorno a Roma” è anche il titolo di un brano musicale con il quale il cantautore romano Niccolò Fabi ha partecipato al Festival di Sanremo 1998, classificandosi all’ottavo posto. Racconta di una storia finita, dalla parte “forte” di chi lascia; la melodia, calda e coinvolgente, accompagna un testo che sembra voler alludere ad una situazione di dipendenza affettiva, in cui l’altra persona non riesce ad accettare la fine di una relazione Ora il brano vive nuova vita accompagnando i titoli di coda del film.
Il lungometraggio comincia da dove i film di solito finiscono, dalla fine di una storia. Zoe (la brava spagnola Marta Nieto) e Tommaso (Edoardo Leo) stanno insieme da dieci anni. Lei è una manager di una società che costruisce videogiochi, lui uno scrittore che non riesce a trovare un finale che non sia romantico al suo libro e, di nascosto dalla sua compagna arrotonda lo stipendio occupandosi della posta del cuore di un magazine femminile con lo pseudonimo di Gabriel García Márquez. Un giorno, tra le tante lettere che riceve per la rubrica, arriva proprio quella di Zoe che gli confessa di voler lasciare Tommaso. Parallelamente alla loro vicenda, c’è quella di Umberto (Stefano Frfesi), amico del protagonista, vicepreside disilluso che non riesce più a comunicare con la moglie (Claudia Gerini) che è presa da tantissimi impegni istituzionali come sindaco di Roma e trascura lui e la figlia.
Suddiviso in sei capitoli (Abbraccio, Fine, Piano, Sogno, Accetta, Lasciare), “Lasciarsi un giorno a Roma” (ben sceneggiato da Leo insieme a Marco Bonini, Damiano Bruè e Lisa Ricciardi) conferma ancora la sensibilità e la capacità dell’attore/regista di raccontare storie. Affrontando il tema dell’incomunicabilità che dilaga nella società, è una riflessione sull’amore e il suo eterno mistero: i sentimenti che cambiano nel tempo senza che uno se ne accorge, o fa finta di non vedere. E poi la difficoltà di separarsi, e affrontare scomode verità. Come ha sottolineato lo stesso Leo: “Spesso c’è più paura a lasciarsi che voglia di stare insieme. E dopo tanti anni di convivenza ti poni questa domanda”. Insomma, è una specie di Storia di un matrimonio però molto meno claustrofobico, immerso tra i vicoli di una Roma magica illuminata dalla fotografia di Fabio Zamarion.
“Lasciarsi un giorno a Roma” è una storia d’amore spezzata che farà sentire “a casa” chiunque abbia vissuto una separazione.
Ad arricchire la succulenta proposta di queste giornate cinematografiche è anche “One second“, che segna un ritorno alla grande per il prolifico regista cinese Zhang Yimou (La strada verso casa, Lettere di uno sconosciutoe il meraviglioso Lanterne Rosse): una profonda, delicata e anche commovente dichiarazione d’amore al cinema, alla “macchina dei sogni”.
Racconta di Zhang (Zhang Yi), evaso da un campo di lavoro forzato per poter rivedere la figlia impressa su uno dei fotogrammi di un cinegiornale. Zhang vaga per giorni nello sconfinato deserto per arrivare ad un villaggio dove il cinegiornale 22 verrà proiettato prima del film Heroic Sons and Daughters.
Poco prima della proiezione, però, la pizza viene rubata dall’orfana Liu (Liu Haocun), una ragazzina a cui serve la pellicola per costruire un paralume per il fratellino e per liberarsi da un gruppo di teppisti. La perde, per poi ritrovarla, e riperderla ancora, mentre al villaggio tutti attendono trepidanti la proiezione del film da parte di Mr. Cinema (Fan Wei), soprannome affettuoso dato al proiezionista. La pellicola viene rovinata per un banale incidente stradale. Sporca e impolverata, viene stesa, lavata e asciugata con cura da Mr. Cinema e tutte le persone lì presenti. Ciò a cui si assiste è un vero e proprio rito “sacro” preparatorio in funzione di una cerimonia che altro non è che la visione collettiva del brevissimo film in una sala cinematografica di fortuna.
Il cinema più che mai diventa evasione da una realtà opprimente e oscura – quale per il regista era il periodo della Rivoluzione Culturale cinese -, mentre per Zhang quell’unico secondo ha un significato ben più intimo e personale.
“One second” è il Cinema Paradiso del nuovo millennio.
Il regista mostra senza remore quanto la Rivoluzione Culturale in Cina sia stato un periodo segnato da povertà, crisi sociale e sofferenze tra le più atroci: coraggio che è probabile sia stata la causa delle censure che hanno colpito il film e determinato il suo ritiro dalla Berlinale 2019.