“I grandi maestri” importante opera narrativa dello scrittore austriaco Thomas Bernhard (5 febbraro 1931 Heerlen Olanda, 12 febbraio 1959 Gmunden Upper Austria), partita da Roma, è stata in questi giorni in tournée in Italia ed è stata scelta da Federico Tiezzi nell’intenzione di realizzare un’impeccabile idea di adattamento e concezione della messinscena teatrale.
Ha dato così vita a un “atipico” esempio di Gesamtkunstwerk della forma visiva e linguistica, seppur la musica ne sia solo un’elegante e significativa cornice, mentre tutte le altre arti vengono continuamente citate e analizzate in un testo che spazia dalla forma teatrale a quella dialettica e filosofica facendo voli pindarici per poi ricadere nell’abisso della vita e dell’incertezza terrena.
Il regista Federico Tiezzi, classe 1951 di Lucignano, noto nel panorama teatrale italiano per aver fondato la compagnia Il Carrozzone, poi divenuta Magazzini Criminali, ed in seguito la Compagnia Lombardi-Tiezzi, con alle spalle esempi di regie di grandi risultati e risvolti artistici.
Dopo avere messo in scena altri due testi di Bernhard, Tiezzi completa la trilogia con “I grandi maestri”, portando a termine un progetto che non ha esclusivamente una valenza teatrale ma di natura filosofica e linguistica, andando a sollecitare riflessioni sull’arte e sulla vita di tutti gli spettatori.
Studio e spettacolo sono dedicato a Franco Quadri, che sollecitò Federico Tiezzi a lavorare sui “Grandi Maestri” e a distanza di anni decise di affidarne la drammaturgia a Fabrizio Sinisi, traendone un gioiello teatrale.
Come nel romanzo, il plot si sviluppa su un approfondimento filosofico riguardante l’arte e il suo ruolo nella vita dell’uomo.
Il protagonista è un anziano musicologo viennese, Reger, dalla personalità molto complesse caratterizzato da un atteggiamento incline alla misantropia, interpretato da un intenso Sandro Lombardi, che sostiene perfettamente il ruolo possedendo il testo in maniera magistrale.
La scena è tutta ambientata nel Kunsthistorisches di Vienna, in cui il musicista “sociopatico”, tenta di distruggere anche gli “Antichi Maestri” in mostra nella sala in cui si siede a meditare e commentare con veemenza le più disparate forme di arte e di fenomeni sociali.
Le riflessioni estetiche sull’arte di Reger sembrano contenere un solo significato: quello del dolore per l’incolmabile vuoto e assenza per la morte della sua amata, unico essere ad averlo salvato dalla disperazione.
L’amore e la sua assoluta potenza salvifica, cancellano, secondo l’uomo, qualsiasi valore artistico se paragonato alla funzione dei sentimenti nella vita di ogni essere umano.
In questo paragone impari, l’arte sembra svanire se non fosse per quella luce che alla fine emerge dalle tenebre delle nostre esistenze e ci ricorda che nonostante tutto forse è l’unico elemento a superare la morte.
Reger torna a vedere uno spettacolo a teatro, e dal teatro si distacca invece il suo più sereno amico insegnante, nonché narratore Atzbacher, interpretato da un ottimo Martino D’Amico, forse perché nell’alternarsi delle vicende umane, solo il dolore più atroce può far apprezzare il sublime e il mistero di quel miracolo che è l’arte.