Portare in scena “La Metamorfosi” di Kafka (in questi giorni al Teatro Argentina di Roma) non è solo adattare un’opera narrativa importante, attraverso la drammaturgia e relativa regia, ma un atto di profonda empatia con la letteratura tedesca e in particolare con il genio di Franz Kafka.
Autore raffinato, stilisticamente avvincente nella suo ossessivo descrittivismo di una storia di “mutazione” dell’umano in mostruosità, o forse il contrario, (della manifestazione dell’umana mostruosità attraverso la difformità); processo che conduce il protagonista Gregor, ad una fine irreversibile come velocemente accade ad ogni insetto in natura.
L’insetto per antonomasia è l’essere vivente più piccolo e vulnerabile, sovente oggetto di metafora per descrivere la bassezza e l’antitesi della nobiltà umana, emblema ricorrente della sporcizia, addirittura del male, secondo molti passaggi biblici fino ai simbolismo più intellettuali o meno del cinema contemporaneo.
La regia e la drammaturgia messe in atto dalla mente Giorgio Barberio Corsetti sono così concentrate sulla forma immaginifica di un corpo, in un processo di trasformazione e di disfacimento delle fattezze umane, fino al raggiungimento dell’abiezione e della morte.
Più che un apparente distruzione dall’interno, è evidente che l’annientamento dell’uomo/insetto richiama in realtà, il nobile concetto di catarsi, di un corpo che non riconoscendosi più omogeneo al luogo e allo spazio sociale e più intimo della famiglia, decide di ricercare in sé la parte più bassa per liberarsi da membra che ormai associa alla decadenza più assoluta della specie umana.
Fondamentale nello spettacolo è la scenografia, che su una piscatoriana piattaforma girevole, permette l’avvicendarsi di scene familiari che si fagocitano l’una con l’altra, come a voler accelerare il tempo in cui tutti non desiderano più nient’altro che Gregor, il quale aveva fino ad allora condotto una vita da pacato e annoiato commesso viaggiatore, e il con la propria fine, la borghese “serenità” di un padre, una madre e una sorella.
La spiazzante e delirante visione familiare sono rese possibili grazie a uno stile che potremmo associare, in quanto ad effetto, a quello del “Verfremdung” Brechtiano, attraverso l’utilizzo della terza persona nell’interazione distopica dei personaggi.
Cast di attori molto uniformi nello stile interpretativo impeccabile e d’impatto, a tratti basato su una comicità delirante (Sara Putignano, Roberto Rustioni, Anna Chiara Colombo e Francesca Astrei) fatta eccezione per il protagonista, Michelangelo Dalisi, attore che si differenzia, senza rompere l’equilibrio scenico, attraverso uno stile “nordico”, più composto ma non distante, per cui l’artista riesce ad unire con talento e forza una spiazzante spontaneità e istinto alla tecnica attoriale, rendendo il personaggio una sintesi di mostruosa e commovente umanità.
Lo spettacolo ci restituisce un adattamento teatrale tra i più riusciti degli ultimi anni di un’opera letteraria, con uno spettacolo forte, di parola e corporeità, dalle cifre stilistiche definite e che rimandano ad una regia sempre presente, senza allontanarsi e perdersi, come spesso è accaduto nell’esibizionismo demiurgico.