Chi ha visto in Malcom & Marie (Netflix, 2021) presunzione, supponenza ed esagerazione drammaturgica, forse non ricorda Truffaut, Godard, e nemmeno Antonioni. Non ha troppa memoria di come fosse il cinema una volta, perennemente coinvolto in una danza che potesse scuotere l’animo di un pubblico avido di vita, tra primi piani estenuanti e dialoghi senza fine. Marie (Zendaya) è una modella che non ha mai sfondato come attrice, Malcom (John David Washington) è un regista. Rientrano in casa dopo la premier del suo ultimo film, ad accoglierli c’è un’immensa villa in LA. Il tempo di versare un bicchiere di scotch liscio, far partire Down and out in New York City di James Brown e già avvertiamo la tensione nell’aria, così come l’adrenalina della “vittoria” di Malcom, euforico per i commenti positivi del pubblico. Marie è bellissima, ma arrabbiata: Malcom ha dimenticato di ringraziarla nel discorso pronunciato dopo la proiezione del suo film. Così comincia il ballo a due, estremo e furioso, quasi per niente romantico ma traboccante di cosa sia davvero l’amore: una montagna russa dalla quale è impossibile scappare.
Siamo ancora sulle note di James Brown, la macchina da presa si muove carrellata dopo carrellata, sotto la direzione di Sam Lenvinson (produttore di Pieces of a Woman e regista di Assassination Nation). Capiamo di essere di fronte a un profilmico senza scampo, custodito da massicce pareti domestiche. Vorremmo ballare anche noi ma non possiamo, sappiamo che qualcosa sta per accadere. Li guardiamo inizialmente da lontano, esattamente fuori dalle vetrate. Seguiamo i due protagonisti col fiato sul collo, la maggior parte del tempo camera a mano. Il bianco e nero assume un sapore nostalgico, sopportiamo Marie perché in fondo ci ricorda le donne di Fino all’Ultimo Respiro, Questa è la mia vita, Jules et Jim. Il regista le regala il dono della sincerità, le fornisce un’insopportabile empatia e una capacità maniacale di analisi. Malcom e Marie sono figli della stesse mente, parlando la stessa lingua, un po’ come tutti i personaggi di Woody Allen risultano sempre “alleniani”. E’ un elemento inverosimile che accettiamo nella finzione, e che non deve distrarci dal cuore del tutto: il dialogo.

A un certo punto vi chiederete “dov’è finita Marie”? E vorrete saperlo, perché in fondo anche voi non siete più abituati al mistero: quel fattore x, il “what if” (come viene chiamato nel film), che sembra essere la migliore chiave di lettura per una pellicola che grida al mondo la sofferenza dell’industria cinematografica. Malcom & Marie non è solo un gioco a due in bianco e nero girato in 35 mm. E’ infatti la prima pellicola prodotta post pandemia tra il 17 giugno e il 2 luglio 2020 in California. La location è un’enorme villa di Los Angeles immersa in una natura arida e distante dal dramma in atto. Questo nuovo prodotto Netflix è probabilmente la storia d’amore della quale non sarà facile innamorarvi, quella che sarà capace di stancarvi e sfinirvi. Il consiglio è di resistere fino alla fine, o quanto meno un tempo sufficiente per essere d’accordo sul monologo di Malcom contro i critici cinematografici, per assistere ad un geniale provino mancato, o per trovare conforto nei dubbi che la pandemia ha innescato nelle nostre relazioni. Il film è tecnicamente limitato, benché aiutato da una location milionaria. La scelta è l’intimità invece del caos, addirittura l’amore invece del sesso.

Massimo due ore: è il tempo a disposizione solitamente per impacchettare una storia. Malcom & Marie corrono veloci, sono i messaggeri di una messa in scena tutt’altro che spontanea. Litigano in un delirio filosofico e sentimentale ai limiti della ragione. Il regista mette alla prova la nostra capacità di giudizio, nell’arco dell’intero film prenderemo le parti dei due più volte senza troppa convinzione. Saremo con loro sul divano, con loro ad aspettare in una stanza, con loro in una vasca da bagno troppo orgogliosi per le lacrime.
Tra le righe c’è di mezzo la fama, il successo, la competizione del cinema americano dove un prodotto girato da un ragazzo di colore, con attori di colore, assume inevitabilmente sfumature legate alla discriminazione. Con il suo film, Malcom vuole essere il nuovo Spike Lee, e perché no, il nuovo William Wyler? Ma Wyler non era di colore, forse però il pubblico nemmeno lo sa. Non vuole fare un film politico, ma la sua vena creativa è indubbiamente intrisa di impegno sociale. Già impegnato in un biopic su Angela Davis, la nota attivista del movimento afromaericano statunitense, Malcom cerca di difendere l’ultimo baluardo della cinematografia: la passione oltre la razza, l’esperienza oltre la critica. E’ furioso dopo aver trovato la prima review su LA Times, la camera è ferma dietro il corpo di Marie, stesa sul divano, deliziata da un infinito monologo che rivendica una forma forse utopica o troppo sincera di cinema: “Movimento, allestimento, digitale o pellicola? Conta solo ciò che vuoi. […] Il cinema non deve per forza celare un messaggio. Deve avere forza ed energia”.
“Ancora oggi nessuno da dirmi perché Wyler abbia girato L’Acquila Solitaria. E’ tutto un mistero. Cosa guida un regista? Cosa guida un artista? […] E’ il mistero dell’arte. Del cinema. Che spinge qualcuno a fare qualcosa o a dire qualcosa”. L’arringa di Malcom contro l’esercito dei critici cinematografici è tutt’altro che sobria, bagnata di scotch e adrenalinica. Li incolpa dei film banali che vengono prodotti, di aver troncato le carriere di aspiranti artisti, di continuare ad etichettare un film solo perché girato da un nero invece che un bianco. “Non sanno come descrivere le emozioni perché temono di non essere letti o di essere attaccati dagli altri”.

Nel frattempo Marie rivela, e a tratti nasconde, ogni sfumatura della sua insicurezza. Le giriamo attorno intrappolati dalla sua rabbia, chiedendoci se si tratti di vittimismo, mancanza d’amore, o rimpianto di non essere stata la stella di Malcom sullo schermo. Rivendica il suo essere musa e compagna, si sente privata della sua storia di tossicodipendenza, allontanata dai riflettori e dalla riconoscenza di chi ama. E’ un contenitore d’emozioni, una bellissima bomba ad orologeria.
Malcom & Marie si sono detti tutto, troppo, protagonisti a tratti di inquadrature solitarie, dove specchi, finestre e sigarette cercano di assottigliare invano la disperazione. Alla fine la macchina da presa rimane lontana ad osservare, stanca e immobile. Anche noi siamo stanchi, senza fiato, consapevoli di aver assistito ad un esercizio di stile dal talento più che raro. E’ un piacere ritrovare nella piattaforma in streaming una sorta di cinema autoriale moderno, coraggioso dei propri sentimenti. Malcom sa essere incredibile “quando non è troppo impegnato ad essere un terrorista emotivo”. Marie “è la donna più insopportabile, intelligente e ostinata” che lui abbia mai conosciuto. Possiamo essere talmente tante cose per chi ci è accanto, da dimenticarci cosa vogliamo essere davvero?

Parlare d’amore è complicato, girare un film nell’era della pandemia è quasi impossibile, ma la mente creativa a quanto pare trova sempre il modo. O perlomeno, questo è ciò che sicuramente direbbe Malcom. Il resto è critica di chi teme di non essere letto, o di non ricevere sufficienti click.