Il teatro italiano è indubbiamente ferito, come la stragrande maggioranza dei teatri nel mondo, ma il suo stato era già in affanno prima dell’arrivo del Coronavirus. La verità è che il meraviglioso mondo teatrale è stato quasi svuotato del suo significato da decenni, attraverso la poca attenzione che le istituzioni gli hanno riservato.
Ciò non significa che non siano stati erogati abbastanza fondi con il FUS; ma come viene considerato il settore teatrale all’interno del panorama culturale italiano?
E’ una domanda che dobbiamo porci tutti e con convinzione, perché molto probabilmente la risposta sarà che questo segmento del settore spettacolo, così meraviglioso, non è fondamentale dal punto di vista del mercato. Inevitabilmente il discorso si sposta sulla questione etica e sociale di un organismo tanto antico quanto vulnerabile come quello teatrale: il nostro “spietato” mondo lo sta relegando sempre di più a una parentesi divagativa di stampo capitalistica, senza considerarne la potenza evocativa e rivoluzionaria che ha sempre rappresentato nei momenti più importanti della storia dell’umanità.

Il teatro italiano non possiede, già da più di due decenni, la forza dirompente nel poter fungere da cassa di risonanza del “nuovo”, delle voci dissidenti o semplicemente non funziona più da diffusore di ciò che vive e si muove nelle varie fasce sociali.
Basti ricordare il “Teatro dell’Avanguardia Teatrale in Italia” raccontato con maestria da Franco Quadri nel testo in due volumi pubblicato dalla casa editrice Einaudi e godibilissimo dal punto di vista del racconto: un’intera opera che illustra i movimenti culturali dei tanti spazi teatrali e delle compagnie italiane sparse da Nord a Sud senza distinzioni di sorta.
Come mai oggi la critica si sta assottigliando e perdendo prestigio, nonostante gli enormi sforzi di coloro che collaborano con tante riviste?
Indubbiamente perché il ruolo di tutto l’entourage teatrale, compresi i giornalisti, hanno subito un cambiamento epocale, attraverso l’iterazione degli stessi spettacoli con cast e titoli “sicuri” e quindi una stagnazione del pubblico, che ora è meno attento e più assuefatto ad una visione piccolo-borghese.
Durante questo periodo di pandemia, ci si aggiunge la chiusura voluta dal DPCM che ha previsto una prima e seconda inattività dei teatri, all’inizio in primavera e poi in autunno; in questa seconda fase l’unica novità importante è lo streaming di alcuni spettacoli di rilievo o del circuito nazionale attraverso la regia televisiva sui canali ufficiali, tra cui Chili, piattaforma finanziata dal governo con società attiva dal 2012 nel settore dei servizi di TV on demand e che conta oltre 4 milioni di utenti iscritti.

L’accordo economico per la formazione della Newco prevede il controllo da parte della Cassa depositi e prestiti che guiderà le operazioni con il 51% e verserà nove milioni di euro cash, mentre Chili, la piattaforma di streaming cinematografico, deterrà il 49% a fronte di un investimento di 9 milioni tra, tecnologia, know how e cash, a cui si aggiungono MIBACT, regista del progetto e che verserà 10 milioni provenienti dal Recovery Fund.
Nonostante il progetto sia di ampio respiro e valorizzi produttivamente il settore teatrale, il rischio è che ci possa essere una scarsa percezione da parte dello spettatore di ciò rappresenti realmente uno spettacolo nella sua profonda entità e bellezza.
Se le regie televisive non dovessero essere a dir poco perfette il rischio sarebbe quello di ottenere un surrogato di ciò che si vedrebbe dal vivo.
Si perché il teatro è magia, onirismo, unicità, motivi per cui forse la loro chiusura sarebbe dovuta essere scongiurata: l’arte è meno importante del nutrimento alimentare o di un negozio di vestiti? No.
E’ questo il concetto che si sarebbe dovuto sedimentare nelle menti degli Italiani, che vedono qualsiasi attività culturale inaccessibile già da mesi, nonostante le misure di sicurezza fossero impeccabili.
L’eccessiva “chiusura” nei confronti del teatro e il dissenso per i provvedimenti governativi era stata espressa già durante la riapertura di molte attività “altre” nel mese di giugno, da coloro che oggi possono essere considerati un’istituzione del teatro italiano, senza esserlo “ufficialmente”: Antonio Rezza e Flavia Mastrella, protagonisti di una carriera ultratrentennale che li ha visti collezionare prestigiosi premi (Leone d’Oro alla Carriera della Biennale di Venezia, Premio Rosa d’Oro della Milanesiana, Premio Ubu e molti altri), e soprattutto l’amore della critica e del pubblico. Leggiamo per esempio alcune dichiarazioni di Rezza di qualche mese fa:
C’è da vergognarsi rispetto alla considerazione della cultura rispetto ad altri paesi europei. Le sue considerazioni partono dal generale al particolare: Il ridicolizzare qualsiasi fenomeno culturale è un orientamento da regime dittatoriale. Si ridicolizza la cultura di modo da far pensare, per esempio, ad un metallurgico che attori, musicisti o scrittori svolgano le loro attività per hobby e non come sacrificio.

Il regista di Nettuno, si era concentrato sopratutto sul paradosso tecnico:
Pensiamo ai permessi concessi agli eventi sportivi, fondati sullo scontro fisico, dove si manifesta l’essenza del corpo. Oppure, se si va al mare si nota che gli ombrelloni sono a normale distanza, i ristoranti giustamente, e sottolineo giustamente, fanno quello che gli pare per ritornare a una normalità. In tutto ciò, si impongono al teatro disposizioni assurde, come dover indossare la mascherina sul palco a teatro. Al cinema, invece, agli attori è consentito baciarsi se hanno effettuato il tampone, in teatro invece non ci si può avvicinare. Una scoperta rivoluzionaria per la medicina: evidentemente l’attore di teatro contagia di più.
Anche oggi Rezza è coerente nelle proprie posizioni e attraverso le dirette streaming al Teatro Vascello riesce a trasmettere le sue idee su un teatro che sia autentico, non ricattabile dai sistemi di potere e alle promesse di finanziamento in cambio dell’accettazione della situazione attuale:
Il mondo del teatro è troppo colluso con i finanziamenti per rivendicare la posizione estrema di chi si lamenta, la paura foraggia la cautela, potrebbero arrivare meno soldi domani, è meglio stare in silenzio e attendere che riaprano le chiese, se si attivano i luoghi di culto possiamo spalancare anche le sale. Il teatro si è affidato a Dio pur di non scoprire il fianco trafitto. (…) Certo il tolettatore ha più diritti, tra cinquant’anni si scriverà come tolettava bene. Verranno dall’universo a vedere le tolettate nei musei, il parrucchiere farà i colpi di sole al passato e del futuro rimarrà la chioma in lontananza di chi scappava per paura di perdere lo scalpo. E poi i ristoratori, i bar, i lavasecco, gli ottici, i fornai, i meccanici, le baby sitter, ognuno tutelato dall’ipocrisia mentre a chi va su un palco non è concessa neanche quella.
Possiamo dedurre dalla situazione descritta da Rezza, che dei motivi che la determina si possa riassumere il fatto che si sacrifica sempre la parte meno “commerciale”: non è vero come diceva Shakespeare che “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”, a volte anche i sogni fanno parte dell’economia di un paese evoluto.
Nonostante le numerose sospensioni delle attività teatrali, convenienti soprattutto per i grandi spazi teatrali, -grazie ai rimborsi per mancata attività- non per i piccoli, quelli in cui spesso il nuovo avanza, è proprio lì che alcuni spettacoli sono andati in scena con grande plauso del pubblico nonostante le restrizioni del numero degli spettatori.

Incredibile la resistenza dei teatranti, quasi stoica, un’amore sconfinato per il loro lavoro tra i meno riconosciuti nel settore dello spettacolo, ma in verità il centro di tutto il simbolismo delle nostre esistenze, materiale per le drammaturgie, è perfettamente incarnato da coloro che andrebbero a vedere uno spettacolo in qualsiasi momento: perché l’arte è nutrimento per l’anima soprattutto in un periodo in cui ci si può perdere.
Il teatro non morirà mai solo se ci sarà uno sforzo nell’introdurlo in modo spontaneo all’interno dell’offerta culturale e non badando solo all’utile del botteghino, perché solo differenziando e appoggiando progetti più avveniristici e a volte rischiosi si potrà aspirare al teatro come forma di espressione dell’evoluzione sociale e storica di un paese ricco di idee e iniziative come il nostro.
Il più grande regista italiano degli ultimi decenni, Giorgio Strehler, ci può aiutare, con un suo celebre pensiero, a capire molto di ciò che tutti i teatranti vorrebbero trasmettere al pubblico, alla gente comune, anche a chi non conosce o non entrerà mai in un teatro:
Io so e non so perché lo faccio il teatro ma so che devo farlo, che devo e voglio farlo facendo entrare nel teatro tutto me stesso, uomo politico e no, civile e no, ideologo, poeta, musicista, attore, pagliaccio, amante, critico, me insomma, con quello che sono e penso di essere e quello che penso e credo sia vita. Poco so, ma quel poco lo dico…