“Mulan”, film Disney diretto da Niki Caro, è uscito il 4 settembre, ma ha ricevuto più critiche che apprezzamenti. Girato tra Cina e Nuova Zelanda, è il remake dell’omonimo film d’animazione del 1998, basato sulla leggenda di Hua Mulan, popolare eroina cinese che si traveste da uomo per sostituire il padre malato nell’esercito.
L’uscita del film, costato almeno 200 milioni di dollari, era molto attesa e per questo ci si aspettava uscisse in primis al cinema, invece è stato reso disponibile su Disney+, pagando per di più una quota aggiuntiva di 21,99 euro; soltanto a dicembre sarà disponibile con tutti gli altri contenuti della piattaforma. Le critiche sono diverse, tra cui le evidenti differenze sul piano narrativo, emozionale e metaforico tra il cartone e il film. Sono infatti assenti Mushu, il draghetto che protegge la guerriera, e il generale Li Sheng, il comandante di Mulan con cui nel finale nascerebbe una storia d’amore. Questo personaggio è stato scisso in due nuove figure: il Comandante Tung, che diventa mentore dell’eroina, e Honghui, soldato semplice e amore della protagonista. Più in generale, sembrerebbe che i personaggi di Mulan siano fermamente fedeli a una monarchia imperialista e misogina.
Più gravi sono le critiche legate a questioni culturali e politico-ideologiche. Già in passato, la protagonista, Liu Yifei, aveva dichiarato di appoggiare l’azione della polizia di Hong Kong sui difensori pro-democrazia. Le critiche si sono ora estese a tutta la produzione, poiché nei titoli di coda si leggono ringraziamenti a otto agenzie governative cinesi che operano nello Xinjiang, dove il governo cinese è accusato per la “rieducazione” della minoranza musulmana degli uiguri. Secondo quanto riportato dalla BBC, una di queste, l’ufficio di pubblica sicurezza di Turpan, nello specifico, si occupa della rieducazione politica in quei campi, in cui gli uiguri vengono sottoposti ad un rigido sistema di controllo fisico e mentale, sorvegliati 24 ore su 24, costretti a rinnegare le proprie convinzioni e ad elogiare il Partito Comunista Cinese.
Il Dragone ha naturalmente respinto le critiche internazionali ai campi di internamento nello Xinjiang e li ha descritti come centri di formazione professionale necessari per combattere l’estremismo islamico. Ma i documenti trapelati e le testimonianze di ex detenuti parlano di un ambiente spietato e coercitivo in cui sono diffusi gli abusi fisici e verbali, così come le sessioni di indottrinamento. I difensori dei diritti umani hanno definito la repressione nello Xinjiang il peggior abuso collettivo dei diritti umani in Cina da decenni.
Da mesi gli attivisti di Hong Kong cercavano di boicottare il film, e nel web circolava l’hashtag #BoycottMulan, poiché in un certo senso complice dell’azione repressiva cinese sull’etnia musulmana, che calpesta i diritti umani a fini commerciali. Come riportato dal New York Times, il mese scorso, quando la Disney ha intensificato la promozione per il nuovo film, Agnes Chow, 23 anni, attivista per la democrazia è stata paragonata all’eroina popolare cinese e ribattezzata come la “vera Mulan”, dopo essere stata arrestata ai sensi della nuova legge sulla sicurezza nazionale del territorio.
Un’altra critica riguarda la nazionalità della regista Niki Caro che è neozelandese, la quale però ha risposto che non crede debbano essere imposte delle limitazioni, in quanto “gli artisti devono esprimere loro stessi”. “Non devo essere cinese per dirigere il film” ha reclamato.
Inoltre critici cinematografici, lo hanno spesso descritto come un film visivamente potente, ma dalla sceneggiatura piuttosto piatta e senza le profondità e sfaccettature che in tanti si attendevano.
Insomma, a infastidire soprattutto la gran parte dell’opinione pubblica è l’”aggressività cinese”, che si è espressa mediante le dichiarazioni dell’attrice protagonista e i ringraziamenti della produzione.
I film sono il riflesso di quanto accade nel mondo in un tempo specifico e spesso veicolano messaggi di stampo ideologico. Lo abbiamo visto negli anni ’50, quando Washington, durante la Guerra Fredda, attuava una propaganda mediatica contro l’ovvio “nemico russo”. In quel tempo Hollywood si mobilitò spontaneamente per produrre pellicole di spionaggio, un utile strumento per esercitare l’influenza americana sull’Europa, con messaggi semplici nel cui ambito i “buoni” finivano per far prevalere gli ideali di libertà e democrazia in lotta contro il comunismo. Oppure ancora negli anni ‘80, quando le trasformazioni economiche ed informatiche negli USA si intrecciarono con i cambiamenti della società, e le serieTV americane contribuirono alla diffusione di valori e modelli di vita, che assunsero un carattere globale dopo la fine della Guerra Fredda. Nel caso specifico di “Mulan”, per alcuni, il film sembra mirare ad assimilare le minoranze, con il timore che porti ad una rapida erosione culturale.