Il 20 gennaio 2020 La Voce di New York ha pubblicato un articolo su Federico Guarascio, un giovane produttore di documentary che si sta affermando a New York, lontano dal suo paese di origine, l’Italia. Nel corso di una breve intervista Federico ha espresso la seguente opinione personale: “Il mondo del cinema in Italia è morto: mancano i fondi e la mentalità di base è sbagliata. Se hai un bel progetto in mente trovi solo chi è pronto a scoraggiarti. ‘Non ce la farai mai’,’ ‘è troppo difficile’. Qui è esattamente il contrario: hai un’idea o un progetto? Ti finanziano. Investono su di te. Hai la percezione che ce la puoi fare”.
Come studiosa di film, ex co-direttrice e attualmente membro del comitato scientifico di Journal of Italian Cinema and Media Studies, una pubblicazione accademica il cui scopo principale è quello di esplorare e analizzare lo stato dei film e dei media ed il loro impatto a livello globale, questa affermazione categorica è stata, allo stesso tempo, interessante e provocatoria. Per di più, credo che questo tema sia di grande interesse non solo per noi, studiosi di cinema, ma anche per gli italiani e per tutti coloro che sono interessati alla cultura italiana. Di conseguenza, ho deciso di seguire questo caso, per vedere esplorare il dibattito sull’argomento.
Con la collaborazione della brillante e dinamica fondatrice ed editrice di Journal of Italian Cinema and Media Studies, Flavia Laviosa, docente presso il Wellesley College, siamo entrate in contatto con autorevoli registi e produttori, sollecitando le loro opinioni sulla domanda: “Il cinema italiano è morto? Se sì, a cosa attribuisce la causa?”
Com’era prevedibile, non c’è stata unanimità nelle risposte, e mentre alcuni concordano, altri dissentono, sottolineando i tanti successi del cinema italiano, non solo a livello nazionale, ma anche a livello internazionale. Di conseguenza, siamo riuscite ad ottenere un quadro della questione più esteso e vario.
Offriamo qui alcuni esempi che riflettono la vasta gamma di risposte, cominciando con quello della regista Rossella Schillaci che ci parla specificamente della produzione del documentario.
Rossella Schillaci: Documentarista e ricercatrice. Il documentario realizzato alla fine del Master, “Ascuntami”, viene selezionato e premiato in vari festival italiani. È stata assistente alla regia in produzioni Rai e Endemol e attualmente collabora con l’Università Statale di Milano e l’Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia in qualità di docente e ricercatrice.
“Ho sempre lavorato nel mondo del documentario, quindi non posso fare considerazioni generali riguardo al cinema in Italia. Quel che posso dire rispetto ai progetti di finanziamento per i film documentari, pubblici e privati, è che vanno sempre più decrescendo. Il mercato, gli autori, i produttori, le maestranze, ne stanno soffrendo. A livello nazionale c’erano negli anni scorsi bandi interessanti, ad esempio su ‘cinema e periferie’, o ‘cinema e migranti’, con poco budget, ma che avevano permesso la realizzazione di interessanti corti documentari. Purtroppo il succedersi di vari governi, di destra e di sinistra, cancella ogni sperimentazione, per cui questi ‘nuovi’ progetti sono i primi ad essere eliminati dai nuovi governi, senza alcuna analisi dei benefici per la società. L’instabilità politica italiana pesa soprattutto sul mondo della cultura, si procede per tagli e revisioni, non c’è una vera strategia di crescita. La maggioranza delle Film Commission italiane ha budget sempre più ridotti. Spesso le nuove tecnologie non sono nemmeno prese in considerazione, se non per bandi isolati che riguardano giovanissimi autori. Senza una precisa strategia di crescita a lungo termine, libera da strumentalizzazioni politiche, il cinema italiano, come tante altre arti, non può che soffrirne. Ai professionisti che vi lavorano, dopo anni di lotta e sfruttamenti, spesso non resta che abbandonare il campo”.
Angelo Pasquini Fondatore delle riviste satiriche Zut e Il Male, di cui è stato anche vicedirettore, dalla fine degli anni ottanta si è completamente dedicato all’attività di sceneggiatore cinematografico e televisivo. Nel 2013, assieme a Roberto Andò, è stato premiato con il David di Donatello per la migliore sceneggiatura, il Nastro d’argento alla migliore sceneggiatura e il Ciak d’oro alla migliore sceneggiatura, per il film Viva la libertà.
Pasquini ci dichiara: “Che il cinema italiano sia moribondo o già morto è un annuncio che si ripete periodicamente almeno dall’inizio degli anni Ottanta, cioè da quando ho cominciato a lavorare in questo settore, e che viene smentito ogni volta che un nostro film guadagna un premio in un festival internazionale o vince un Oscar. Non è invece una fake news il fatto che nello stesso arco di tempo la politica statale nei riguardi del cinema sia stata in pratica un fallimento, la cui responsabilità va condivisa tra le diverse coalizioni governative che si sono susseguite. Questo poco invidiabile primato di incapacità dello stato italiano nel sostenere e promuovere un settore imprenditoriale di crescente importanza come l’audiovisivo si associa a una debolezza sempre più marcata del settore produttivo privato e al crescente peso, non sempre proficuo, dei network televisivi nelle scelte produttive. Il risultato è un cinema che sopravvive soprattutto grazie alle performance individuali di singoli autori e produttori più che grazie a una visione d’insieme e a una programmazione a lungo termine”.
Maurizio Sciarra fu primo assistente regista al famoso regista Luigi Comencini, il quale riconosce come “Maestro”. Sciarra ha diretto sia film che documentari, la più parte di questi proiettati in grandi festival internazionali. È stato premiato con un 2CV al Golden Leopard al Locarno International Film Festival 2001 per Off to the Revolution.
Sciarra sostiene che “il cinema in Italia è più che vivo e si sta rinnovando profondamente. Grandi successi nei festival internazionali, ingresso nelle grandi piattaforme con serie ideate e prodotte in Italia lo dimostrano. L’inizio dell’anno ha visto ai primi posti nel box office uno dall’altro, realizzati da giovani e da grandi maestri. La differenza con le produzioni USA è nella dimensione delle imprese. In Italia anche i grossi gruppi sono troppo piccoli e non riescono ad investire in innovazione. In Italia, negli USA, in tutto il mondo, la più grande fatica la fa un autore a trovare idee originali e compatibili con il mercato, ed a farsele finanziare. Ma questo è lo showbiz, da sempre!”
Massimo Cristaldi, figlio del famoso regista Franco Cristaldi, é produttore e regista, noto per Passage to Paradise (1998), Sicilian Ghost Story (2017) e Salvo (2013). Ha lavorato con suo padre in molte produzioni.
Cristaldi aggiunge: “La risposta potrebbe essere chilometrica, oppure semplicemente un ‘sono d’accordo’. Tentando una via di mezzo, condivido anzitutto l’analisi sintetica ma accurata di Gianfranco sull’evoluzione/involuzione dell’industria cinematografica italiana dal dopoguerra ad oggi. E, ahimè, condivido la lapidaria affermazione di Federico Guarascio che senza girarci intorno, molto ‘straightforward’, alla maniera americana, va dritto al punto, e il punto purtroppo è innegabilmente quello. Anzi, se mi permettete una battuta, se Guarascio mi concede il copyright di quella frase ne farei un bel poster da attaccare nell’anticamera del mio ufficio, modello ‘lasciate ogni speranza o voi che entrate'”.
Ciò non significa che un produttore italiano particolarmente valoroso, laddove rilevi ‘l’urgenza’ di un progetto in termini creativi – e questo, nell’imbuto ormai strettissimo in cui un film non ‘mainstream’ deve passare oggi per sperare di vedere la luce, dovrebbe comunque essere sempre il termometro di valutazione se un film va fatto o no – animato da grande spirito di abnegazione non possa tentare la via crucis (mesi, a volte anni, di lavoro e chilometri di documenti da produrre) di finanziarlo attraverso i fondi pubblici statali e regionali, le misure automatiche di sgravio fiscale (tax credit) le coproduzioni (se il progetto si presta e raccoglie interesse in Europa) e conseguentemente i fondi europei.
In pratica rinunciando – non per volontà ma per aver trovato tutte le porte chiuse – al supporto di una major italiana, broadcaster o distributore che sia, cioè rinunciando ai capitali privati, quelli che provengono dal mercato e non o non solo dal supporto statale e che caratterizzano un’industria sana, riagganciandomi appunto all’analisi di Gianfranco Angelucci.
Ma senza un ‘backing’ del genere è molto probabile che il film, alla fine eroicamente portato a compimento, non trovi sbocco in sala. Sala che è comunque diventata una forma marginale di fruizione del contenuto film, e questo come sappiamo è un fenomeno globale, non riguarda solo il nostro paese. E ci deve portare, ci sta portando, a un modo diverso, anche se ancora non ben definito, di pensare e di impostare l’impalcatura finanziaria e produttiva dei prodotti cinematografici.
Poi c’è la produzione televisiva, la lunga serialità che oggi è una nuova frontiera del racconto per immagini e che gode di una richiesta di mercato infinitamente superiore ai ‘film per la sala’. Mi riferisco soprattutto alle piattaforme on line (Netflix, Amazon, etc) che producono, sebbene in via secondaria, anche per la sala. E forse da qui si possono individuare gli spiragli di un cauto ottimismo: la moltiplicazione dei cosiddetti ‘players’. Più soggetti finanzianti ci sono sul mercato e più si può parlare di un vero mercato. Solo laddove cresce la domanda di prodotto un’offerta diversificata e indipendente può trovare sbocco. Ciò che ha reso così asfittica e omologata la nostra produzione cinematografica e televisiva dagli anni Ottanta in poi è stato soprattutto il venefico duopolio Rai/Mediaset.
La speranza è che questi nuovi soggetti aumentino e che investano seriamente in Italia. E proprio perché non sono gruppi italiani si spera che possano mantenersi liberi dalla politica italiana e dalle sue articolazioni ed influenze ideologiche e spartitorie sulla nostra industria. E di conseguenza i produttori potranno forse ritornare ad operare in un mercato che li cerca anziché respingerli, un mercato che, come dice Guarascio che avviene ‘là’, se hai un’idea, se hai un buon progetto, ti finanzia, investe su di te. Ti dà la percezione che ‘si può fare'”.
Gianfranco Angelucci è regista e scrittore, noto per Miele di donna (1981), Zoom su Fellini (1983) e intervista (1987). Angelucci collaborò a vario titolo con Fellini fino all’anno della morte di Fellini (1993).
Angelucci dichiara: “L’analisi di Guarascio in una visione generale è corretta. Dopo la stagione fiammeggiante del dopoguerra, in cui i teatri di posa erano distrutti, o quelli ancora in piedi venivano utilizzati per accogliere le famiglie senza casa, il cinema italiano per sopravvivere aveva preso necessariamente la via del racconto on location, all’aria aperta; intuizione geniale di Roberto Rossellini non tanto in Roma Città Aperta quanto nel successivo Paisà (con la collaborazione alla sceneggiatura di Federico Fellini). Il rinnovamento, il fervore della ricostruzione post bellica, la svolta stilistica aveva prodotto un fermento creativo non soltanto sul piano estetico. Tra la fine degli Anni Cinquanta e tutti gli anni Sessanta, il cinema italiano ha conosciuto una stagione industrialmente sana, con registi di ingegno e produttori che sapevano rischiare; anche grazie a un pubblico generoso che affollava le sale per passione e per necessità: non c’erano molti altri svaghi. Quel periodo chiamato della Hollywood sul Tevere, che vede anche molte produzioni americane venire in Italia grazie all’accoglienza del Paese e al basso costo della mano d’opera, favorisce uno scambio di culture importante, mentalità dei cineasti si evolve, cambia l’approccio al cinema: come business di intrattenimento ma anche esercizio d’arte. Arrivano i grandi autori, De Sica, Germi, Antonioni, Visconti, Fellini, che ottengono riconoscimenti importanti e travasano l’Italian way of life anche all’estero; l’America, sensibile al fascino latino, ricambia con i premi Oscar.
Il cambio di passo avviene con la primi crisi degli anni Ottanta e la disaffezione alle sale del pubblico monopolizzato dalla televisione. Sul mercato irrompono le emittenti private, la fruizione dello spettacolo cambia completamente pelle. L’industria cinematografica, a corto di soldi, comincia a boccheggiare e di conseguenza interviene la mano pubblica, sotto forma di finanziamenti ministeriali. Sottratto alla logica di mercato, l’unica possibile per una industria sana, il cinema si rifugia nei finanziamenti pubblici che immediatamente si intrecciano con gli interessi politici, con inevitabili distribuzione di soldi in funzione di consenso elettorale (logiche di sottogoverno). I produttori diventano dei questuanti, i registi cercano padrini politici invece di misurarsi con la meritocrazia, e la distribuzione di fatto scompare insieme ai minimi garantiti (provvidenziali anticipi di denaro sulle vendite, anche come presidio di indipendenza imprenditoriale). Questo sistema ‘malato’ si è assestato nei decenni seguenti sostituendo di fatto a una industria competitiva, un cinema assistito. I film si indeboliscono organicamente, le storie private o minimaliste non escono più dai confini del Paese, gli autori cresciuti nel tepore artificiale di una serra perdono ineluttabilmente forza e linfa vitale. I critici, complici per quieto vivere, plaudono al nulla gratificando bambini viziati. E certo il cinema rischia di morire in una lunga agonia, come sta avvenendo. Anche se non credo nella sua morte imminente, si avverte già una trasformazione di cui però ancora non comprendiamo bene la forma e i modi. La locomotiva di questa trasformazione per ora resta pur sempre negli Stati Uniti”.
Antonio Falduto, ha lavorato come assistente alla direzione di Ettore Scola e Steno. Nel 1991 realizza il cortometraggio Nero come un Pelo e nel 1992 debutta con Antelope Cobbler. Nel 2009 co-scrive il documentario La Città nel cinema con Marta Zani e Stephen Nathanson.
Falduto aggiunge: “Non conosco questo signore… ma le sua affermazioni mi sembrano piuttosto generiche. Il cinema italiano ovviamente non è morto, non è vero che tutti ti scoraggiano a fare film, ci sono sceneggiatori, registi e produttori che lavorano tantissimo, il problema è la qualità.”
Emanuela Piovano è una regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica italiana. Nel 2006 la Cineteca Nazionale di Roma le ha dedicato una giornata nell’ambito della prima rassegna registe italiane. Nel 2011 Emanuela Piovano è stata insignita del primo premio “Intervita” dedicato alle figure del cinema. Nel 2016 è uscito L’età d’oro.
Piovano contribuisce al dibattito dicharando: “Nei primi anni ottanta, appena ventenne, fui invitata a New York con un piccolo film indipendente prodotto in Italia, Processo a Caterina Ross di Gabriella Rosaleva. Facemmo una tournée per le Università e alcuni nostri lavori furono acquisiti dal MoMA. Per questo la società che qualche anno dopo ho fondato a Torino e poi a Roma si chiama Kitchen, come quel luogo magico di Andy Warhol che ci aveva – tra gli altri – ospitato. Molti miei compagni di Università si erano trasferiti negli USA per studiare cinema alla NYU, dove anch’io avevo stretto un legame con Annette Michelson e seguito alcune lezioni americane di Gerard Genette.
Tuttavia scelsi di continuare in Italia il mio percorso. Sono stati decenni di grandi trasformazioni e grandi stagnazioni, dove risentiamo ancora fortemente del Piano Marshall che se da un lato ha ridato ossigeno all’Italia strozzata dal fascismo, d’altro canto ha irregimentato un’arte che aveva dato il meglio di sé nella clandestinità (il neorealismo in prima linea per la libertà).
Penso che oggi come oggi sia in atto un grande fermento e che i giovani stiano trovando strade molto creative per proseguire la lezione del neorealismo, sensibilizzando le istituzioni e la società civile. Ritengo che il non aver abbandonato il campo quando tutto sembrava perduto possa aver contribuito a questo radicamento, a non disperdere una grande tradizione di cui anche tutto il cinema americano migliore è per sua stessa ammissione debitore.
Esiste poi una corrente carsica ricchissima, che va da autori celebrati in USA negli anni settanta come Grifi, De Bernardi, Barucchello, fino al gruppo affascinante e cospicuo di autori contemporanei portati alla luce da Adriano Aprà (FUORI NORMA) che è davvero una miniera d’oro, e a cui l’assenza di finanziamenti pianificati non sembra aver tolto smalto, un po’ come nella permacultura, dove le coltivazioni di riso disordinate e sapienti di Fukuoka rendono chicchi eccezionali e più nutrienti”.
Luca Martera: Autore, Regista e Produttore di Televisione:
Martera conclude: “Gli Stati Uniti sono e resteranno ancora per molto i maggiori fornitori a livello mondiale di contenuti audiovisivi per il cinema, la televisione, il web e i videogiochi. Detto questo la loro ‘industry’ rimane abbastanza chiusa agli apporti creativi di persone non anglofone Se Silicon Valley attira da sempre i migliori cervelli provenienti da tutto il mondo, non è così per Hollywood che, in genere, ‘ingloba’ attori, registi e produttori stranieri solo se hanno avuto un rilevante successo commerciale nel loro paese. Ciò significa che queste persone vengono chiamate per un lavoro su committenza, come è accaduto a Gabriele Muccino e Luca Guadagnino, ma non è che se uno sceneggiatore o inventore di format tv proveniente dall’Italia, o da altre paese non anglofono, possa sedersi facilmente al tavolo di qualche grande Studio di Hollywood, canali Tv oppure delle piattaforme come Netflix, Amazon, Apple, Hulu e avere il peso contrattuale per poter proporre un suo progetto. I casi di successo sono rarissimi. Da filmmaker indipendente però ci sono più possibilità di lavorare perché lo sterminato mercato di lingua inglese ha nicchie di pubblico molto specifiche – che però possono arrivare anche a 500 mila o 1 milione di persone – mentre se uno in Italia vuol trattare argomenti non convenzionali – a meno che non trovi un broadcaster grande come Sky per “Boris” – andrò a sfracellarsi quasi sicuramente perché il numero di spettatori interessati è troppo basso per garantire continuità di lavoro”. Queste prospettive, proprio per la loro eterogeneità, ci offrono spunti di riflessione, considerando non solo la creatività che guida l’industria, ma anche il ruolo che il mondo della politica svolge nel facilitare il finanziamento di progetti e le relazioni commerciali tra artisti e consumatori.”
Concludo con le parole di Lina Wertmüller, l’iconica regista che in un’intervista da me condotta nel 2005, discutendo lo stesso tema, rimpiangeva tempi migliori del passato anche se continuava a nutrire speranze nel presente: “ho visto soffrire Fellini, il mio adorato Federico, perché non riusciva più a fare i suoi film. Ho sentito dire ad Antonioni: ‘non mi ricordo più neanche come si dice motore’. Voglio dire, anche in Italia il successo é una brutta bestia e l’insuccesso, e il commercio, e il cinema, i produttori. Insomma, é la nostra giungla. Tutto sommato con le sue ferocie ma anche con le sue bellezze.”
Ringraziamo la Professoressa Flavia Laviosa per la sua preziosa collaborazione, e tutti i registi e i produttori che si sono resi disponibili a contribuire a questo dibattito. Grazie!