La chiave che orienta lo sguardo dello spettatore è tutta nel titolo, capace di stuzzicare gli appetiti cinefili più variegati. Il Traditore segna l’attesissimo ritorno di Marco Bellocchio sul tappeto rosso di Cannes, unica pellicola italiana in concorso per la Palma d’oro 2019.
Palermo, 1986: bersaglio d’implacabili flash e coloritissimi epiteti, la “star” nell’arena del Maxiprocesso è lui, Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi – primo “pentito” nella storia di Cosa nostra – che il regista piacentino sceglie di raccontare anche e soprattutto nelle vicende di miseria umana, fra i ricordi che si mischiano agli incubi allucinati. Sullo sfondo, anni cruciali per la storia criminale e politica italiana cui “don Masino”, interpretato da un intenso e sorprendente Pierfrancesco Favino, dà un contributo essenziale.
È lui infatti che, a colloquio con Giovanni Falcone (interpretato da Fausto Russo Alesi) scoperchia il vaso di pandora della mafia siciliana, aiutandolo a decifrarne struttura, meccanismi, rapporti di potere e affiliazioni. A partire dalla rivelazione del vero nome dell’organizzazione: non generica e inafferrabile “mafia”, pura “invenzione giornalistica”, bensì la piramidale “Cosa nostra” cui egli stesso giurò fedeltà ben 40 anni prima delle sue deposizioni e che mai rinnegherà.“Non sono un pentito. Non sono uno spione, un infame. Voglio pagare il mio debito con la giustizia”. E ancora, “sono stato e resto uomo d’onore”. Sono “loro”, dice rivolto alle belve mafiose che dietro le gabbie scalpitano, che “hanno tradito gli ideali di Cosa Nostra”.

Un film potente nelle immagini e nei simbolismi, nonché nella performance di un cast di prim’ordine che, tra gli altri altri, annovera Luigi Lo Cascio (I cento passi) nei panni di Totuccio Contorno e Fabrizio Ferracane in quelli del “cassiere di Cosa nostra” Pippo Calò, l’amico fraterno e poi traditore, cui Buscetta, prima dell’ultima fuga in Brasile, affiderà la vita dei suoi stessi figli Antonio e Benedetto, vittime di lupara bianca e proprio da Calò assassinati per ordine dei corleonesi di Totò Riina.
Il Traditore, applaudito per 13 minuti a Cannes, prende le mosse dall’arresto di Tommaso Buscetta a Rio de Janeiro e dalla sua estradizione in Italia nel 1984. Ne racconta il tentativo di suicidio, i colloqui e l’intesa con Giovanni Falcone, le testimonianze e i super confronti in aula, la sua vita “altra” sotto protezione negli Stati Uniti, insieme alla terza moglie Cristina (Maria Fernanda Cândido) e ai loro figli. Traspone fedelmente i fatti e contiene frammenti di cronaca vera, come la strage di Capaci, in seguito alla quale Buscetta alzerà il tiro, aprendo il capitolo delle complicità politiche mafiose e tirando in ballo l’onorevole Giulio Andreotti. Perché “anche a Roma”, dice, ci sono “uomini d’onore che hanno imparato a farsi il nodo alla cravatta”.
“E’ un film diverso da tutti i precedenti – ha spiegato Marco Bellocchio, oggi 79enne – forse assomiglia un po’ a Buongiorno, notte perché i personaggi si chiamano coi loro veri nomi, ma lo sguardo è più esposto, all’esterno, i protagonisti sono spesso in pubblico (…) pur essendo i personaggi spesso ripresi a distanza ravvicinata, trascurando però quei tempi psicologici, quelle nevrosi e psicosi “borghesi” che sono state spesso la materia prima di molti film che ho fatto in passato. Il Traditore è anche un film civile (o di denuncia sociale come si diceva una volta) evitando però ogni retorica e ideologia. Ho scoperto infine in questo film, sempre da dilettante, il siciliano, lingua meravigliosa spesso storpiata, ridicolizzata, caricaturizzata anche dal nostro cinema (e televisione)”.
Il maestro in effetti dischiude la porta sull’intimità del Buscetta uomo, sulle sue ambiguità e sulle sue reticenze, sui suoi vizi e sulle sue debolezze, sui suoi sogni (come la libertà di un gelato a Mondello, confessata nell’ultimo incontro a Falcone) e sulle sue paure.

Ed è proprio quel sentimento di paura, che accomuna tanto un pentito quanto l’uomo più retto e giusto come Giovanni Falcone (il quale dirà: “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo”) la costante della vita di Buscetta. Paura che mai lo abbandonerà e che anche dopo le sue deposizioni, le condanne, l’allontanamento dall’Italia e l’entrata nel programma di protezione negli Usa, lo farà sentire braccato dentro e fuori casa da una mafia che, lo sa bene, non dimentica.
Il Traditore, confessa Bellocchio, “è stato il mio film più faticoso e difficile: riprese a Palermo, Roma, Rio de Janeiro, Colonia. C’è stato un grande interesse europeo, penso sia merito del tema: Buscetta non è un eroe ma neanche un uomo meschino. Un personaggio complesso”.

Ultimo di 18 fratelli, Buscetta si definisce “soldato semplice” all’interno di quella Cosa nostra che secondo lui si era snaturata fino a tradire, in nome del potere e del denaro, gli ideali romantici che l’avevano animata agli inizi, “a protezione della povera gente”. Figura carismatica nel contesto criminale mafioso, era il boss che “usava la testa”, ma anche quello che parlava mezzu ‘miricanu, che amava le donne e la bella vita.

Dopo lo sterminio della sua famiglia, avvenuto nel fuoco incrociato fra corleonesi e palermitani e continuato in seguito alle dichiarazioni da lui rese, divenne uomo chiave del Maxiprocesso che portò alla sbarra l’intero stato maggiore di Cosa nostra, concludendosi con 19 ergastoli e complessivamente 2665 anni di carcere per gli imputati.
“La mafia si è resa invisibile senza scomparire. La tana sta in alto”, dice don Masino nel film al giudice Falcone, il quale (dal canto suo) arriverà a congederarsi dal collaboratore con una stretta di mano e un’osservazione: “Questa guerra è appena cominciata”. A 27 anni esatti dalla strage di Capaci, Il Traditore esce nelle sale italiane e rivela tutta la sua necessità. Capace di far riflettere, emozionare, interrogare menti e coscienze di ieri e di oggi.
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