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May 3, 2019
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Il “diario senza date” di Roberto Andò: l’arte, la politica, i ricordi, la vita

Della sua ultima fatica, "La Tempesta", afferma che “quella di Shakespeare è una delle grandi opere che servono per capire un mondo che va in rovina"

Giuseppe SacchibyGiuseppe Sacchi
Il “diario senza date” di Roberto Andò: l’arte, la politica, i ricordi, la vita

Twitter / Enrico Magrelli

Time: 7 mins read

Imparare a fare cinema con un gigante – ma ciò riguarda anche ogni branca del sapere e ogni manufatto umano – può voler dire essere schiacciati da un macigno, ma così non è stato per Roberto Andò (sempre interessato – al cinema o in teatro – ai temi del doppio, ai possibili cortocircuiti tra arte e vita, letteratura e cinema, politica e società), che ha lavorato fin da giovanissimo con le icone più importanti del mondo della celluloide (da Federico Fellini a Francesco Rosi, da Michael Cimino a Francis Ford Coppola).

Un incontro intenso e ricco di riflessioni sulla vita, l’arte, la letteratura e la politica quello vissuto al Teatro Petruzzelli di Bari nella sesta giornata del Bif&St e nel quale Andò (che, ricordiamolo, ha messo in scena lavori teatrali di grande spessore e scritto diversi libri di successo, tra cui “Il trono vuoto”, vincitore del Premio Campiello nel 2012) è stato capace – cosa non facile di questi tempi, non solo in campo artistico – di spaziare dall’amicizia alla letteratura, dal cinema alla politica.

Prendendo spunto dalla sua ultima fatica teatrale ancora in cartellone, “La tempesta” (con un Prospero intellettuale disilluso dai tempi e immerso in uno spazio pieno di libri sospesi), lo scrittore e regista siciliano “marca subito l’area” con un riflessione politica su ciò che l’opera di Shakespeare può e deve oggi suggerire alla riflessione: “Viviamo un tempo di false rivoluzioni, di annunci di rivoluzioni a cui non segue una rivoluzione, ma semmai una restaurazione – dice Andò -. La politica è condannata alla finzione: il vecchio fa finta di essere il nuovo, come avviene oggi. Questo è il tempo che ci è toccato ora, ma stare lì a distinguere e ricollocare le cose coi nomi giusti è importante, è il nostro ruolo”.

Ma non basta. Infatti subito dopo aggiunge: “Interessante per un narratore è il soffermarsi sull’aspetto di un potere impotente che predica continuamente morte sulle parole per attivare qualcosa che non è in grado di attivare: dietro, però, ci sono persone che soffrono e che hanno bisogni reali. L’aspetto illusorio e illusionistico della politica di oggi fa sì che questo dolore venga cinicamente messo da parte per fare altro. Oggi – conclude Andò – c’è il problema di mantenere il potere per il potere”.

L’invito è quello di tornare a ragionare con la propria testa. “Il potere ha delegato all’economia ogni decisione perché non è in grado di prenderne e l’economia – aggiunge il regista di Il manoscritto del Principe (2000), davanti a volti esterefatti che si spettavano magari un incontro ‘tutto celluloide’ – ha occupato ogni spazio, è l’oroscopo delle nostre vite con il motto ‘Non ci sono alternative’”. Una riflessione che giustifica anch la scelta di mettere in scena ‘La tempesta?: “Quella di Shakespeare è una di quelle grandi opere che servono per capire una crisi, un mondo che va in rovina, il complotto del potere”.

Visti i volti un po’ preoccupati di chi gli sta di fronte, Roberto Andò, nato a Palermo nel 1959, apre “finalmente” la cassaforte delle sue emozioni cinematografiche e letterarie, dei suoi rapporti professionali e di amicizia con Leonardo Sciascia, Francesco Rosi (che considera il suo maestro), Federico Fellini (assistente in La nave va), Michael Cimino (assistente in Il siciliano), Harold Pinter, Francis Ford Coppola: tutti nati da tanta “gavetta”, come si diceva negli Anni ’50 ma rifiutata in quelli subito dopo. “Per la mia generazione – dice Andò – sono stato controcorrente: ho iniziato a lavorare sui set in un periodo, quello ‘Morettiano’ in cui tutti prendevano subito in mano la macchina da presa e giravano i loro film. Io invece ho fatto un vero e proprio apprendistato durante il quale ho potuto osservare da vicino e addirittura collaborare con grandi artisti dai quali ho imparato il senso della libertà”.

Hanno poi preso spazio i ricordi delle tante amicizie significative, tutte vissute con grande curiosità umana, per cui parlare di loro non significa “fare del pettegolezzo” ma rimarcarne, ridefinirne i contorni, sempre con riconoscenza e ammirazione sincera.

“Fellini era il più politico dei registi ma anche il più misterioso, non abbiamo veramente legato, ma non ho mai visto nessuno lavorare come lui. Aveva un modo di organizzare le riprese assolutamente unico, riusciva a creare una geometria perfetta in mezzo al caos assoluto. Sul set di E la nave va mi volle sempre vicino alla coreografa tedesca Pina Bausch, che aveva scelto come attrice ma che temeva avrebbe abbandonato le riprese dopo avere visto il suo particolare approccio alla regia. Lui era attratto da lei, ma pensava che anch’io lo fossi per cui cercava di non lasciarmi troppo solo con lei. Non le affidò una grande parte in scena: le chiese di cantare semplicemente una ninnananna anziché recitare le battute previste. Avevo 24 anni e solo dopo un decennio ho capito il vlore di quell’incontro”.

“Con Francesco Rosi, figura paterna, maestro e per il quale ho lavorato in Cristo si è fermato ad Eboli, si creò invece una grande amicizia: ci sentivamo al telefono anche tre volte al giorno. Era un grande professionista che seppe esprimere una drammaturgia civile. Ora sto lavorando con sua figlia Carolina e sono emozionato perché mi sembra di lavorare con una sorella”.

“Francis Ford Coppola mi colpì per la convinzione e allo stesso tempo il dubbio con cui girava Il Padrino Parte III. Lui era ‘dentro il cinema’ ma anche ‘fuori il cinema’: era disincantato da questo mondo che cambiava pelle, ne aveva viste veramente tante. Era comunque anche molto audace: per una scena sulla scalinata del Teatro Massimo di Palermo – che lui immaginava come una scena d’opera – voleva che dietro la macchina da presa ci fosse Peter Brook, ma poi dovette accontentarsi di un regista di routine”. 

Si avverte invece in Roberto Andò il dolore quando parla di Michael Cimino, con il quale ha collaborato per Il siciliano: “Con lui ho molto legato, siamo stati insieme in Sicilia per ben sei mesi, era sempre alla ricerca di location particolari, della ‘Sicilia dei fiumi’ perché il paesaggio era il vero protagonista dei suoi film, come per John Ford. Ha pianto davanti a certi paesaggi! L’ho visto per l’ultima volta a Roma, durante una cena, era già trasfigurato dai vari interventi di chirurgia estetica ed ad un certo punto mi chiese: ‘Pensi che stia diventando donna?’. Capii che era un uomo che stava male, che aveva subìto la fine di quel cinema che aveva così bene incarnato e che non si faceva più, non ha retto il fatto di non potere più girare”.

Grande impronta nella su vita è stata l’amicizia con Leonardo Sciascia. “Ha dato molto all’Italia, all’individuazione della letteratura. Era un uomo limpido, mi ha accolto come fossi un fratello minore, anche se era già famoso. Per lui un colpo di penna era come un colpo di spada. Mi colpì la su definizione di Pasolini: Mite, della mitezza che hanno gli eretici”.

Preceduto dalla proiezione di Una storia senza nome (fotografa ironica e (in)volontaria sullo stato delle cose del cinema italiano contemporaneo e presentato nell’ultima edizione del Festival di Venezia), Andò ci tiene a precisare di aver voluto solo “prendere a pretesto il furto della Natività di Caravaggio – sottratta dalla mafia nel 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo e mai ritrovata – solo per parlare di cinema: un prezioso pezzo da museo (tela=cinema, insomma) tolto alla disponibilità comune e da recuperare pian piano come una reliquia perduta, passando per ministri della cultura che bramano la “citazione giusta” e grandi registi del passato che timbrano il cartellino svogliatamente. Un furto che trovò il suo spazio anche nella trattativa Stato-Mafia.

Feeling tra criminalità e cinema? “Il crimine in generale – chiarisce Andò – è lusingato dal cinema, anche quando ne dà una rappresentazione efferata. La mafia uccide giornalisti e giudici, cineasti invece non ne ha mai fatti fuori. Tutto quello che è avvenuto in Italia attorno a certe fiction non ha fatto altro che fare piacere al crimine, perché si rispecchia in un racconto del crimine che diventa quasi attraente, seduttivo».

Il regista e scrittore siciliano non si è voluto sottrarre neanche a un domanda molto “personale” suggerita dal suo film Le confessioni: “Il mio rapporto con la fede è complicato: sarei contento di dire ‘non ce l’ho’ ma anche contento di dire ‘ce l’ho’. Non è detto che non torni a parlrne in un altro film”.

Nel corso dell’incontro c’è stato anche il tempo di ricordare affettuosamente Bruno Ganz, recentemente scomparso, che recitò per Andò nel primo lungometraggio del regista,  Diario senza date. “Sono poi tornato a lavorare con lui per ‘Il caso Kafka’ con Moni Ovadia affidandogli la voce dello scrittore. E lui volle registrarla recitando a memoria, senza leggere il testo. Mi colpì profondamente. Era un attore curioso, amico di tanti scrittori ed è stato l’unico attore citato in un libro dell’austriaco Thomas Bernhard, che scrisse ‘La Svizzera ha di buono solo Bruno Ganz’, attirando contro Bruno tante antipatie dei colleghi connazionali”.

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Giuseppe Sacchi

Giuseppe Sacchi

Sono marchigiano, ma non esattore delle tasse. Amo il cinema e le persone, perché le loro vite sono film di vario genere, dal comico al thriller. Ho vissuto a New York 16 anni lavorando per "America Oggi", "Paese Sera", riviste Moda e King. In Rai ho condotto per 7 anni il programma "La Notte dei Misteri" e poi il giornale radio notturno. L'età non è quella della carta di identità ma quella che volete darmi.

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