Zain (Zain Al Rafeea) è un dodicenne profugo siriano che vive con la famiglia nei bassifondi degradati di Beirut. Il ragazzo è profondamente esasperato dalla povertà che lo circonda, anche socialmente, dal fallimento dei genitori nel proteggerlo e dai disperati, inefficaci ed umilianti accordi da loro fatti per procacciarsi soldi, come l’aver venduto in matrimonio, al viscido figlio del padrone di casa, l’undicenne Samar (Cedra Izam), molto legata a Zain. Il ragazzo è esasperato a tal punto da citare in giudizio – mentre imprigionato nel famoso carcere libanese di Roumieh per aver accoltellato un furfante predatore – i propri genitori “per averlo fatto nascere nonostante la povertà e in un mondo pieno di ingiustizie”: una difficile azione legale, incoraggiata però da un programma televisivo che pone l’accento sui bambini poveri.
Attraverso flashback siamo testimoni dell’orrenda fanciullezza di Zain, dello sfruttamento dei genitori, dei loro inganni e raggiri che spingono il ragazzo a preferire la vita di strada piuttosto che quella familiare.
Un giorno Zain incontra Rahil, madre singola con figlio che deve nascondere per non essere licenziata (Yordanos Shiferaw, migrante etiope anche nella realtà): lei gli offre ospitalità in cambio di babysitteraggio del suo piccolo Yonas (la piccola infante Boluwatife Treasure Bankole che dal primo momento in cui appare ruba prepotentemente la scena e i cuori).
Stiamo parlando di “Cafarnao: caos e miracoli“, terzo lungometraggio della regista e attrice libanese Nadine Labaki, vincitore al Festival di Cannes 2018 del Premio della Giuria (la proiezione ufficiale fu salutata da 15 minuti di standing ovation) e candidato al Golden Globe 2019 come Miglior film straniero. Nel film la Labaki – unico professionista del cast – interpreta l’avvocato difensore di Zain.
“Cafarnao” (il titolo non ha niente a che fare con la città biblica, ma con il fatto che in libanese capharnaüm significa caos, confusione, inferno) presenta la provocazione di un popolo messo in ginocchio dalla continua incuria dei politici.
Il film ha uno sviluppo etico, ma anche intimo, che nella sua crudezza, commozione ed intensità ricorda molto il neorealismo italiano dei film di Vittorio De Sica e Roberto Rossellini, in particolare la trilogia di quest’ultimo sulla guerra: “Roma città aperta” (1945), “Paisà” (1946) e “Germania Anno Zero” (1948), lungometraggi che esaminano sopravvissuti traumatizzati che cercano di ricostruire le loro vite tra rovine e fantasmi del passato e che, così come “Cafarnao: caos e miracoli“, si avvale anche di un tono melodrammatico per aumentarne l’impatto.
Con questo film Nadine Labaki, dopo aver affrontato, attraverso la commedia, temi religiosi e politici con “Caramel” (2007) e “E ora dove andiamo?” (2011), si sperimenta nel genere drammatico con ottimi risultati: un bel “road movie” – così lo possiamo anche definire – dentro le illusioni, la crudeltà della vita e la resistenza e forza interiore dei profughi.
“A conti fatti quei bambini pagano un prezzo altissimo per i nostri conflitti, le nostre guerre, i nostri sistemi e le nostre stupide decisioni e governi – ha detto la regista –. Ho sentito il bisogno di parlare di questo problema mentre pensavo :’Se questi bambini potessero parlare, cosa direbbero? Cosa direbbero a noi, a questa società che li ignora?’”. Le riprese del film sono durate ben sei mesi e il filmato era inizialmente di 12 ore: dopo un lavoro di due anni al montaggio, la lunghezza del film è stata ridotta a 2 ore. Un tempo che scorre però davvero in fretta nell’animo dello spettatore, catturato dal tambureggiante scenario di emozioni.
Ottimi risultati ha prodotto la difficilissima scelta da parte di Nadine Labaki di avere come interpreti persone la cui vita reale assomiglia a quella nel film.
“Per il personaggio della mamma di Zain – ha detto la regista libanese – mi sono ispirata a una donna che ho conosciuto, la quale ha 16 figli che vivono nelle stesse condizioni descritte nel film: sei dei bambini sono morti e altri sono stati messi in orfanotrofio per mancanza di accudimento. In questo cast, dove anche il giudice è un vero giudice, io ero l’unica “nota stonata” in mezzo agli attori: per questo il mio intervento in veste di attrice – nel cuore della verità degli altri – è stato minimo. Il termine ‘interpretare’ mi ha sempre creato problemi e ancora più nel caso di Cafarnao in cui le parole esigono una sincerità assoluta. Era dunque fondamentale che gli attori fossero persone che conoscono le condizioni che vengono descritte affinché io potessi avere una legittimità nel parlare della loro causa. In ogni caso, ritengo che sarebbe stato impossibile per degli attori professionisti incarnare degli individui dal vissuto così pesante, il cui quotidiano è un inferno. Di fatto ho voluto che il film entrasse nella pelle dei miei personaggi, piuttosto che il contrario”.
Da notare, per dovere di cronaca, due cose: Zain Al Rafeea, come il suo personaggio, ha lavorato fin da tenera età ma non è un criminale e neppure non è amato: ora vive in Norvegia coi genitori e ha imparato a leggere e scrivere, cosa che all’epoca delle riprese non sapeva però fare; la vita dell’etiope Yordanos Shiferaw ha vissuto disagevolio paralleli con il suo personaggio: durante le riprese è stata infatti arrestata ed imprigionata per 2 settimane perché immigrata illegale (nel 2016 il Libano contava quasi un milione di profughi siriani). Altri ragazzi coinvolti nelle riprese sono stati aiutati a cambiare vita grazie alla borsa di studio creata da Nadine Labaki e dal produttore Khaled Mouzanar, suo marito.